A uccidere, in Francia, sono stati due jihadisti sotto sorveglianza. Quest'ultima non ha quindi più senso? Lo chiediamo a un esperto
GINEVRA - Dei due attentatori che, martedì, hanno fatto irruzione in una chiesa in Normandia uccidendo un prete e ferendo gravemente un parrocchiano, uno, il 19enne Adel Kermiche, era sottoposto a sorveglianza tramite braccialetto elettronico, l'altro era già stato intercettato dai radar della sicurezza come possibile minaccia. Le misure di controllo messe in atto dallo Stato, quindi, non sono servite a nulla? Lo chiediamo a Jean-Paul Rouiller*, esperto associato del Geneva Centre for Security Policy (GCSP).
La sorveglianza delle persone a rischio di radicalizzazione è efficace?
«In principio, la sorveglianza e i mezzi a disposizione dei servizi di sicurezza europei potrebbero essere efficaci. Tuttavia, se il numero delle persone da sorvegliare supera di molto gli effettivi da destinare al trattamento dei dati raccolti, il risultato è quanto è successo martedì a Saint-Etienne-du-Rouvray. Questo è il problema della Francia, della Germania e potrebbe persino diventare un giorno il problema della Svizzera».
Sarebbe possibile, in Francia per esempio, avere abbastanza personale per attuarla?
«Mai. È del tutto impossibile».
Se sorvegliare non basta, che cosa si dovrebbe fare?
«Innanzitutto bisogna ricordare che la sicurezza totale non esisterà mai. L’abbiamo visto bene a St-Etienne, a Nizza e in Germania. Il prezzo da pagare, del resto, sarebbe esorbitante per dei Paesi definiti democratici. O meglio, potremmo mettere più di metà della popolazione a sorvegliare il restante 40% e ridurre drasticamente le libertà personali, ma il risultato sarebbe molto vicino alla Stasi della Germania dell’Est. Più che sorvegliare le persone bisognerebbe invece evitare che prendano questa strada. La sola via percorribile, non per fermare completamente, ma per ridurre questo problema è prevenire».
Kermiche, uno degli attentatori di St.-Etienne, era stato scarcerato in marzo. Sarebbe stato opportuno tenerlo in prigione?
«Riguardo alla scarcerazione di Kermiche è in corso un acceso dibattito in Francia, scatenato da un articolo di Le Monde. In particolare il pubblico ministero non era d’accordo con il suo rilascio, sostenuto invece dal giudice. Io credo che si sarebbe potuto tenere in carcere qualcuno come Kermiche, soprattutto in Francia dove il sistema giuridico è più malleabile di quanto non lo sia in Svizzera. Bisognerebbe tuttavia analizzare quello che è successo in prigione con Kermiche».
Cosa non andava nella sua detenzione?
«Ci si potrebbe chiedere perché in carcere non abbia ricevuto alcun tipo di accompagnamento per tentare di modificare almeno in parte le sue idee. Quando è uscito, poi, non gli è stato proposto assolutamente nulla. Questo ragazzo passava «la maggior parte del suo tempo sul suo smartphone e sui social», raccontano persone a lui vicine. O si decide di mantenere queste persone fuori dalla società o bisogna reindirizzarle verso qualcos’altro: proporre loro semplicemente di rimanere a casa e non fare niente non è una soluzione».
Abbiamo i mezzi finanziari e logistici per accompagnare le persone radicalizzate in modo diverso?
«Non sono sicuro che li abbiamo, ma se si vuole arginare questa problematica bisognerà trovarli. Si potrebbe indirizzare in maniera un po’ diversa le risorse. Dopo quello che è avvenuto a St.-Etienne, il premier francese Manuel Valls è tornato per esempio a parlare di un aumento delle risorse destinate alla difesa e all’esercito. Si potrebbe fare altrimenti».
È di ieri la notizia di uno degli aspiranti jihadisti di Winterthur lasciato senza sorveglianza benché pericoloso. In Svizzera si potrebbe fare di più per controllare gli estremisti?
«In Svizzera c’è il codice penale e la legge sul servizio informazioni. Quello che ci manca ─ e che invece la maggior parte dei nostri vicina ha ─ è un corpus legislativo specificamente dedicato al terrorismo. Non disponiamo di un quadro giuridico adatto insomma. È un tema che meriterebbe più attenzione. Con la legislazione in vigore, infatti, è impossibile sorvegliare determinate persone se non si hanno elementi concordanti e gravi che lascino supporre una concreta possibilità di passaggio all’atto».
È urgente che il nostro Paese si doti di strumenti diversi?
«Sì, penso che sia una questione che dobbiamo porci seriamente e subito, anche in considerazione del fatto che i processi legislativi sono particolarmente lunghi in Svizzera».
*Già collaboratore dell'Ufficio federale di polizia (Fedpol) e dei Servizio delle attività informative della Confederazione. Esperto di contro-terrorismo, ha recentemente pubblicato “Le djihad comme destin: la Suisse pour cible ?”.