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LUGANOGaetano Curreri: «Gli steccati tra cantautori e poeti? Pippe mentali»

31.05.17 - 07:00
Una conversazione con il leader degli Stadio, che a POESTATE parlerà del legame tra musica e testi e racconterà tanti gustosi aneddoti. Come quella volta che Lucio Dalla lo fece piangere…
Gaetano Curreri: «Gli steccati tra cantautori e poeti? Pippe mentali»
Una conversazione con il leader degli Stadio, che a POESTATE parlerà del legame tra musica e testi e racconterà tanti gustosi aneddoti. Come quella volta che Lucio Dalla lo fece piangere…

LUGANO - Gaetano Curreri sarà l’ospite speciale della prima serata di POESTATE, giovedì 1° giugno. Il leader degli Stadio, che l’anno scorso ha arricchito una già luminosissima carriera con il trionfo al Festival di Sanremo, sarà sul palco di Palazzo Civico nell’ambito degli incontri organizzati in collaborazione con RSI Rete Due. Il musicista romagnolo dialogherà con Gianluca Verga e sarà accompagnato al pianoforte da Fabrizio Foschini.

Lo abbiamo intervistato in anteprima, e ci ha raccontato del suo rapporto con le parole e del legame che ha avuto con dei grandi come Roberto Roversi, Lucio Dalla e Vasco Rossi.

Quale rapporto hanno per lei musica e parole?

«Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi poeti. Non essendo io un autore di testi ma di musiche, ho maneggiato molte volte le loro poesie e le ho fatte diventare delle canzoni. Mi capita spesso di lavorare su testi che in prima battuta hanno forma poetica. Partendo da Roberto Roversi, passando per Lucio Dalla fino a un altro grande poeta che è Vasco Rossi. Oppure Francesco Guccini, un’altra persona che parte proprio dal suono della parola per andare a mescolarlo con la musica. Mi viene in mente una della nostre canzoni più significative scritte con Francesco, che è “Swatch”, oppure “Per la bandiera” che commemora la strage di Capaci: quello “strappo di tuono” per identificare il botto è qualcosa che tutte le volte che passo di lì mi viene in mente, è una fotografia impressa nel cielo. È la grande forza che hanno i poeti: con due parole ti fanno vedere un film, un'immagine».

Nelle sue canzoni, quindi, si parte sempre dalle parole?

«No, io opero in tutti e due i modi: se leggo una cosa molto bella che mi ispira, che mi dà grande emozione, comincio a immaginare, a sognare, a navigare dentro quelle parole. Sento magari che potrebbe già esserci una musica, ed è così che generalmente viene fuori. Mi piace molto partire da un testo letterario. La grande forza della parola può ispirare una bella musica, ma delle parole poco interessanti difficilmente si sposano con una bella musica».

Il suo collega Massimo Bubola ha dichiarato che non hanno senso le distinzioni tra chi scrive canzoni e poesie, ma che la cultura salottiera non ha ancora accettato che il Nobel possa essere andato a Bob Dylan. Perché si tende a sminuire il contributo dei cantautori alla letteratura?

«Roberto Roversi diceva che un buon cantautore può essere un buon poeta, mentre un mediocre poeta difficilmente può essere un buon cantautore. L’essere cantautore, molte volte, ti obbliga a una sintesi che invece il poeta non si pone come traguardo. Su questo ha ragione Bubola: in molte canzoni c’è una poesia anche molto moderna, minimalista. Roversi indicava in Vasco un poeta minimalista di grandissimo livello. Queste barriere che si creano fra il poeta e il cantautore sono degli steccati che non fanno il gioco dell’ascoltatore: sono vere e proprie “pippe mentali”. Un uomo dalla cultura immensa di Roversi non si faceva queste problematiche. Era la parola quella che vinceva, con la sua capacità di andare in fondo, di perforarti, di creare degli spazi di felicità immensa».

Anche Ivano Fossati ritiene che «la patente di cantautore è un problema falso e solo italiano». Cosa ne pensa?

«È vero, verissimo. In altre parti del mondo non ce l’hanno questo problema. Il Nobel a Dylan credo che sia una cosa che tappa la bocca a tutti, eppure c’è ancora qualcuno che si scandalizza. Ma ce ne sono altri di cantautori degni del Nobel: in Italia un uomo come Guccini credo che lo meriterebbe».

È stato ampiamente citato uno dei più grandi poeti “prestati” al mondo della canzone, Roberto Roversi: cosa le è rimasto della vostra collaborazione?

«È stato uno dei grandi poeti del Novecento italiano, che ha scritto con me “Chiedi chi erano i Beatles”. Una figura così grande come uomo, e come saggio. Una persona curiosa delle vicissitudini del mondo. Mi è rimasta la sua metodologia di lavoro: lui era un uomo che ti insegnava come lavorare sui testi. Ti faceva capire attraverso un metodo, con il quale lui aveva sviluppato le grandi canzoni di Lucio Dalla, come tu dovevi procedere nella scrittura di una musica quando avevi per le mani un testo. Lo faceva in una maniera talmente bella, talmente naturale, che ti sembrava che fosse normale che quella era la strada. Era molto bravo anche dal punto di vista dell’insegnamento, Roberto: era capace d’incuriosirti, quella era la sua grande caratteristica. Diceva: “Una bella poesia continua a vivere come bella poesia, ma un brutto testo difficilmente diventa una poesia”».

In un’intervista ha dichiarato che con Roversi e Lucio Dalla ha “imparato a scrivere canzoni e a cantare”: quali insegnamenti le ha lasciato il grande Dalla?

«Dalla mi ha dato la consapevolezza, che è uno degli insegnamento più grandi che puoi avere. Mi ha dimostrato che ero capace di scrivere canzoni, e poi anche di cantarle, che era l’ultima cosa che io pensavo di saper fare. Nei dischi di Vasco avevo scritto delle belle introduzioni, erano momenti musicali frutto della mia creatività, ma mi fermavo lì. Con Dalla ho realizzato che avrei potuto scrivere anche tutto il resto della musica. Di questo gli sono eternamente grato, anche se mi ha dato questa consapevolezza in maniera molto ferma, quasi spietata. Una volta mi ha fatto piangere!»

Addirittura?

«Sì. Mi ha fatto piangere perché ero un po’ pigro, e lui ha scosso questa pigrizia - che è qualcosa di molto radicato dentro di me - in maniera talmente forte. Mi aveva dato un aut aut: se entro un mese non avessi scritto una canzone mi avrebbe licenziato. Da lì è scattato il dolore per la perdita del posto di lavoro, quindi sono andato a casa e ho scritto la canzone, “Chi te l’ha detto”. Sono partito con l’introduzione di pianoforte, ma poi ho continuato, perché era quella la cosa che voleva, che smuovessi quel blocco. Lucio, per dimostrarmi che quella musica era molto bella, mi scrisse il testo ed è stato il massimo. È stata la dimostrazione più grande di quello che lui aveva in mente per me».

Con Vasco Rossi, invece, come nascevano i brani?

«Con Vasco, molte volte, parto dal testo: lui mi dà delle parole che sono una vera e propria poesia. Ti cito, per esempio, una poesia fantastica che gli era venuta fuori dopo aver letto il libro di Margaret Mazzantini “Non ti muovere”, e gli era venuta l’idea di una poesia che parlava del senso della vita, inteso com’era in quel libro: vita, morte e amore. Da quella poesia io ci ho scritto una canzone. Io e Vasco ci divertiamo tanto. Adesso abbiamo la consapevolezza del divertimento: all’inizio ne eravamo un po’ alla ricerca, con noi funzionava ma non sapevamo se avremmo divertito tutti gli altri. Adesso sappiamo che può diventare piacere per tanta gente, e ci divertiamo ancora di più. Molto di più. Noi continuiamo a giocare come quando avevamo 18-20 anni».

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