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INTERVISTA«Ho temuto di non vendere più per un calcio di rigore»

13.07.16 - 06:04
Francesco De Gregori, a breve in Ticino per il Castle On Air, si racconta. Sull'impresa di tradurre Dylan: «Incosciente, ma mosso dall'amore»
Daniele Barraco
«Ho temuto di non vendere più per un calcio di rigore»
Francesco De Gregori, a breve in Ticino per il Castle On Air, si racconta. Sull'impresa di tradurre Dylan: «Incosciente, ma mosso dall'amore»

LUGANO - 65 anni e non sentirli. Con due album appena usciti (“Vivavoce”, 28 riletture di suoi classici e diversi duetti, e “Amore e furto”, con canzoni tradotte da Bob Dylan), un libro-intervista (“Passo d’uomo”), il tour e la celebrazione all’Arena di Verona per i 40 anni di Rimmel, Francesco De Gregori dimostra, non solo di avere ancora molte frecce al suo arco, ma anche tanta energia per scoccarle e metterle a segno (ciascuno di questi progetti si è rivelato un successo commerciale).

Per chi lo conosce l’arrivo in Ticino del “Principe” (come l’aveva soprannominato Lucio Dalla per il suo carattere schivo e introverso) non può essere che un dono. Per gli altri, quella del 29 Luglio al Castle On Air di Bellinzona (Biglietteria), è invece l’occasione per correre ai ripari.

Due album, uno di classici riletti e uno di canzoni di Dylan tradotte (quello che poi porta a Bellinzona). Poi il libro e i concerti... Viene da chiederle come mai, ma anche come va?
«Va bene. Le cose che ho fatto e sto facendo mi danno gioia, soddisfazione e divertimento. E meno male. Questo carico di lavoro, effettivamente, è stato abbastanza imponente. Ma si è accumulato in maniera casuale. Se tutte queste cose le avessi programmate, probabilmente, avrei fatto qualcosa in meno. Mi sono trovati per caso in mezzo al caos. Ma un bel caos».

C’è però in tutto questo lavoro un filo conduttore: lo sguardo al passato. E di solito quando ci si guarda indietro si tracciano anche dei bilanci. Qual è, se c’è, il suo?
«Tragicamente, quello che lega tutti questi progetti è uno sguardo al passato. Lo è raccontarmi in un libro-intervista in cui ripercorro la mia storia fino al periodo dell’infanzia, ma anche rivisitare i miei bravi, e ancora rielaborare una delle mie fonti d’ispirazione musicale. Quella tra me e Dylan, deve sapere, è una storia iniziata tantissimi anni fa...»

Tragicamente? Mi sembra un termine improprio nel suo caso…
«L’ho usato con ironia, ovviamente. Non mi sento affatto angosciato dal tempo. Ma è pur vero che a 65 anni, anche se mi sento ancora un fanciullino, ho un carico importante sulle spalle. Ciò nonostante ognuno di questi lavori a cui abbiamo fatto cenno l’ho portato avanti senza nostalgia. Non mi sento un uomo che appartiene al suo passato».

Ha dichiarato di sentirsi quasi figlio di Dylan. Il disco è un ritorno alle origini o una sorta di tributo?
«In realtà non è un progetto nato come qualcosa da finire. Ho iniziato a tradurre alcune canzoni, sollecitato anche dai miei editori musicali e sulla scorta di alcune cose che avevo fatto in passato (si riferisce alla traduzione di “If you see her, say hello” che a sorpresa, anni dopo, lo stesso Dylan usò per la colonna sonora del suo film “Masked and Anonymous”, n.d.r.). L’ho fatto senza nessun criterio e senza la voglia di fare filologia. Fino ad arrivare ad averne 11. A quel punto abbiamo confezionato il disco. È stato difficile? Forse lo è stato l’aver accettato la responsabilità di farlo bene. Perché il problema non è solo di traduzione, ma anche di dargli un’altra vocalità. Difficile, un po’ incosciente, ma mosso da un sentimento d’amore».

Se un artista non italiano volesse tradurre i pezzi di De Gregori?
«Quando uno legge un bel libro, per esempio di Dürrenmatt, non sa che dietro c’è un lavoro di traduzione umile, e il più delle volte anche sottopagato. Ma importantissimo. Quale sarebbe il nostro sguardo sul mondo se non ci fosse questo lavoro difficile? Se qualcuno si mettesse a fare lo stesso con le mie canzoni ne sarei felice. Sarebbe un modo ulteriore per farle circolare».

Come lo è, forse, permettere a un giovane come Fedez, lontano galassie dal suo modo di fare musica, di mettere mano a uno dei suoi brani storici (i due hanno recentemente duettato nel pezzo Viva L'Italia e Fedez ha aggiunto la strofa: “Viva l’Italia, condannata senza prove, l’Italia del ’68, condannata ad un 69. L’Italia che non riparte ma non si dà per vinta: viva l’Italia… diamole una spinta!”).
«È vero, i nostri sono mondi distanti. Però le collaborazioni sono tanto più stimolanti quanto più avvengono fra soggetti imprevedibili. Lui in particolare è stato sorprendente perché, nonostante i 40 anni che ci dividono e il fatto che non fosse nemmeno nato quando io ho scritto questo brano, ha voluto metterci del suo. E mi è piaciuto».

L'Italia ha perso gli europei ai rigori. Ma lei canta di “non aver paura a sbagliare un calcio di rigore” (Lega calcistica del ‘68). Un verso che si trasforma in una ciclica condanna?
«Un verso che mi aveva già creato problemi nell’82. All’epoca uscivo con l’album Titanic, e si giocavano i mondiali. Forse in pochi ricordano che in una delle partite, credo del girone eliminatorio, Cabrini sbagliò un rigore. Temetti di non vendere più un disco. Invece non solo vincemmo quella partita, ma anche il mondiale».

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