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BELLINZONALo strano destino del tatuaggio giapponese che non piace al Giappone

27.03.15 - 14:12
Amato in Europa, in patria è associato al malaffare e vietato alle terme o in piscina. La nipponista Rossella Marangoni ne parlerà oggi alle 17.15 al Japan Matsuri
Lo strano destino del tatuaggio giapponese che non piace al Giappone
Amato in Europa, in patria è associato al malaffare e vietato alle terme o in piscina. La nipponista Rossella Marangoni ne parlerà oggi alle 17.15 al Japan Matsuri

BELLINZONA - Capolavori di tecnica e colore, splendidi da ammirare nel loro disegno elaborato e nell’accidentale paradosso. Apprezzati e coltivati all’estero, in Giappone i “tatuaggi giapponesi” sono invece ancora associati al malaffare. In molte stazioni termali o nelle piscine vige il divieto d’ingresso per chi reca sul corpo i cosiddetti irezumi: pena e marchio di infamia per i malfattori fin dall’epoca medievale, simbolo di appartenenza a clan mafiosi in tempi più recenti. "Oggi il tatuaggio comincia a sdoganarsi fra i giovani, ma cambiare la mentalità richiede molto tempo", riflette e conferma Rossella Marangoni, nipponista milanese, relatrice sul tema nel pomeriggio di sabato, ore 17.15, all’Esopocentro di Bellinzona.

Dottoressa, come si riconosce un tatuaggio giapponese?

"Quello che intendiamo noi oggi è un tatuaggio estremamente pittorico, che si ispira agli ukiyoe, le stampe del periodo Edo (1603-1868). Si tratta di un’epoca in cui il Giappone si chiuse all’influenza straniera: si sviluppò una cultura autoctona molto originale, specie fra le classi popolari, da cui derivarono opere splendide, ancora oggi presenti nel nostro immaginario".

Motivi?

"Cortigiane, guerrieri, motivi floreali e decorativi, animali mitologici, legati al folclore. Tartarughe, gru, carpe: un celebre artista del periodo Edo di cui vengono ripresi i temi è Utagawa Kuniyoshi. Queste immagini, dove la decorazione è così esasperata, si prestano a essere riprodotte su pelle. Ma la tradizione del tatuaggio in Giappone è molto più antica, risale fino al 5mila aC. I primi documenti sull'esistenza del tatuaggio risalgono ai Dogu, le statue in argilla del periodo Jōmon. Allora si trattava di disegni molto semplici, usati per connotare gli individui".

Quanto alla tecnica?

"Oggi è quella che si potrebbe praticare ovunque, meno dolorosa e più igienica, realizzata con strumenti grazie ai quali il controllo della mano è più preciso. Un tempo invece si utilizzavano dei pennini attaccati a cannucce sottili di bambù attraverso cui passava il colore."

I giapponesi però non vedono di buon occhio i tatuaggi: li associano alla mafia, al punto da rifiutare l’ingresso a chi li porta perfino in qualche piscina.

"Confermo. Il tatuaggio è stato addirittura proibito per legge, fra il 1870 e il 1948. Il fatto è che tradizionalmente identificava classi di persone. Già nel periodo medievale era utilizzato come forma punitiva per i malfattori, che venivano marchiati sulla fronte. Per la cultura giapponese, dove è così forte il senso della comunità, significava venire estromessi da essa. A ogni segno corrispondeva una sanzione sociale. Era un motivo di infamia, destinato a etichettare la persona per la vita. In seguito si è diffuso entro i gruppi che vivono ai margini della legge, dai giocatori d’azzardo ai mafiosi. L’aspetto malavitoso, esaltato nel XX secolo, rimaneva comunque nascosto sotto i vestiti: il tatuaggio veniva esibito solo all’interno dei clan".

E oggi?

"In alcune prefetture è ancora vietato ai minorenni. Nell’opinione pubblica rimane qualcosa di negativo, almeno in parte. Non è un caso se, come sottolinea il professor Yamamoto Yoshiki dell'università Tsuru di Yamanashi, studioso di tatuaggi, ogni volta che una rockstar fa qualcosa di borderline la stampa ricorda i tatuaggi che ha sul corpo. L’associazione con il comportamento negativo è immediata. Fra i più giovani non è più così, ma rimane il pregiudizio fra chi è âgée. In molti bagni pubblici è vietato l’ingresso a chi porta tatuaggi; per accedere agli onsen, vanno coperti con dei cerotti".

E il successo del tatuaggio giapponese, allora, come si spiega?

"Oggi i tatuaggi si fanno, ci sono maestri riconosciuti nel mondo. È prerogativa anche delle persone comuni: benché, trattandosi di sedute lunghe e molto costose, non sia alla portata di tutti. È più diffuso tra i maschi, meno fra le ragazze. Certo, far cambiare la mentalità è un processo lento. Per molto tempo rimarrà ancora diffusa un’idea negativa. Ma l’aspetto decorativo e artistico è tale che finirà per essere riconosciuto e apprezzato per il suo valore artistico, come già accade fuori dai confini nazionali".

Il detto “nemo propheta in patria” dunque vale anche per il tatuaggio?

"All’estero è sempre più apprezzato. Anche se realizzarlo richiede una notevole manualità pittorica e una grande conoscenza dell’arte giapponese. Ci si forma dai maestri giapponesi".

Ma c’è abbastanza mercato per il tatuatore?

"Sì. Le convention nel mondo, non ultime quelle a Milano, mostrano che in Europa si tratta di una realtà ormai consolidata. Molte persone scelgono il tatuaggio giapponese. Certo, quello integrale è raro. Ma capita di vedere braccia con il disegno delle carpe. I tatuatori che si sono formati in Giappone vantano una clientela che ha bisogno di prenotarsi con largo anticipo. A Losanna c’è Wido de Morval, ad esempio. Non sono molti. Ci sono molte scuole, piuttosto: ma quanto spesso poi si vedono scritte giapponesi al contrario…"

Dunque è vero il paradosso: il tatuaggio giapponese è più amato fuori che in patria?

"E non è l’unico. Pensiamo alle stampe che in Francia hanno dato vita al giapponismo: tempo fa in Giappone erano usate per avvolgere gli oggetti da spedire in Europa".

 

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