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26.03.15 - 08:00
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO
Storie di treni e di contrabbando
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO

Dalla valle esce un treno che porta più storie che vagoni. A cominciare dal nome: sul versante svizzero del confine è la Centovallina, su quello italiano è la Vigezzina. Lo stesso tocca ai due torrenti che dalle medesime montagne scorrono uno verso ovest, il Melezzo, l’altro verso est, la Melezza. È che certi confini non si disputano, piuttosto si condividono, si confondono e si perdono di vista: in una selva di castagni uccisi e rinati da un male che ogni mezzo secolo li assale; o lungo il solco di una valle che alcune volte caccia acqua da far paura, altre è secca come certi cuori; o tracciato per pietraie ingrate, piccoli deserti lepontini; inteso da lingue che si sovrappongono, parole che figliano parole.

Qui capita spesso di avere un piede in Svizzera e uno in Italia, e un po’ ci si fa l’abitudine; finché, di tempo in tempo, di impedirlo non si incaricano la Storia, quella che finisce sui libri – si spara, si fugge, si cerca riparo, si attacca – o le meschine necessità della quotidiana politica, con meno eroici manifesti e artiglierie elettorali.

La lupa di cui ha scritto Cormac McCarthy superò la frontiera tra Messico e Stati Uniti "più o meno nel punto in cui questa incontrava il trentesimo minuto del centottavo meridiano". Anche i contrabbandieri vigezzini e cannobini che calavano nelle Centovalli certe notti, più o meno nel punto in cui la stessa terra diventava d’altri, avranno guardato il cielo per capire se il loro era un passo giusto. Non sempre lo era, no.

E anche oggi, istruiti da una secolare pedagogia sui confini "naturali", faticheremmo a riconoscere sotto lo stesso cielo una frontiera tracciata sulla terra. Uno alza lo sguardo da un finestrino della Centovallina che lascia Locarno e fila per il Pedemonte, e i campanili o le vette che vede profilarsi sull’orizzonte saranno ancora Svizzera? Saranno già Vigezzo? E tutta quella gente che parla tedesco? E il dialetto che risuona di fermata in fermata, da Corcapolo a Re, sarà poi quello dell’una o dell’altra parte?

Prendi Re. Da quando i pittori suscitarono il miracolo della Madonna che sanguina – o fu la Madonna a ispirare loro – quell’icona benedicente dilagò per villaggi e alpi, indifferente alle frontiere, occupando lunette su povere facciate, o, in forma di immaginetta, appuntata sulla credenza, insieme alle fotografie dei nipoti e a un promemoria dell’Agricoltore ticinese. E lavorava ignaro o non curandosi dei confini l’Antonio da Tradate che salì a Palagnedra nel quindicesimo secolo a dipingervi almeno una piccola parte di tutte quelle più numerose cose che stanno tra terra e cielo. Nella chiesa originaria di Palagnedra, il suo ciclo allegorico dei mesi corre lungo l’intero coro – oggi una sagrestia – quasi sorreggendo un’apoteosi di santi e profeti e vite di Nostro Signore, che salgono a colmare il cielo artificiale della volta. Spostandosi con i suoi cartoni, questo Giotto un po’ in ritardo disseminò d’arte gli oratori affacciati sul Verbano, dove oggi si dice Italia, e chiese e chiesette di borghi e villaggi svizzeri. Ma bisogna dire che a Palagnedra diede il meglio, forse perché fuori lo attendeva il Gridone che incombe e costringe quasi a rovesciare indietro la testa per vederne la sommità appuntata nel cielo. Il ciclo dei mesi il pittore lo vedeva svolgersi lì fuori, in quella campagna sospesa sul solco inabissato del torrente; e, sopra quella montagna sovrana, un cielo grande abbastanza per ospitare storie sacre e teologie.

O storie di più povera umanità, che dalla vetta del Gridone sembra di vedere andare in scena Sulla ribalta della valle. È dall’alto, infatti, che i contrabbandieri italiani scendevano nelle Centovalli. Dalla Val Cannobina, dalla Val Vigezzo, a caricare o scambiare merci che il confine, ma più ancora la loro fatica, rendeva preziose. Caffè e tabacchi sciolti risalivano la montagna in direzione dell’Italia nei primi decenni del Novecento. Attraverso gli stessi valichi dai quali, a direzione invertita, scese il riso nello scorcio sanguinoso della Seconda guerra mondiale; per poi riprendere la via dell’Italia nel dopoguerra, quando erano le “bionde” a riempire le bricolle degli spalloni. Don Enrico Isolini, parroco a Palagnedra dal 1934 al 1968, conobbe a fondo le vicende degli sfrusìtt, le fatiche ingrate, le spacconate, le morti. "Era gente che aveva un gran bisogno", mi raccontò. "Le sere che andavo a Rasa da Bordei per dir messa l’indomani mattina, li incontravo con i loro sacchi". E Lassù li aspettava la montagna, li guatavano le guardie.

Un contrabbando che conobbe una parentesi di relativo sollievo per gli spalloni – almeno finché l’introduzione della milizia confinaria fascista, in aggiunta alla Guardia di Finanza non complicò le cose – grazie all’inaugurazione della ferrovia a scartamento ridotto tra Domodossola e Locarno nel 1925. "La ferrovia era la nostra pacchia", mi raccontava un contrabbandiere di Trontano, in Val d’Ossola. "Era più comoda. Si poteva andare a caricare a Camedo dal Guidetti. Lavoravo alla Montecatini di Domo. Col turno del mattino, che finiva alle due, si faceva in tempo a venire a casa, mangiare un boccone e prendere il treno delle tre e quaranta". Il ritorno, con la bricolla in spalla, lo facevano a piedi.

Non c’è vicolo, da Intragna a Camedo, che non avrebbe da raccontare una di quelle storie. E di sicuro lo scrittore di una Spoon River centovallina dedicherebbe almeno un verso a un qualche Rico: "Io ero quello che arrivava di notte". Ad attenderlo poteva essere il grossista che lo riforniva di caffè, o il bacàn a cui lasciare il riso; oppure una guardia con la quale negoziare o dalla quale fuggire, se si era ancora in tempo: "Sono stato ferito in Ruscada il 29 gennaio del 1944", racconta un contrabbandiere vigezzino. Era mattina presto, ancora buio, ma la guardia T., nota per lo zelo con cui mirava ai contrabbandieri, li aveva scorti. "Ha gridato “alt”, ma intanto sparava. L’Enrico non è riuscito a scappare".

E quello che oggi è storia o mito domestico fu però anche dramma. Negli anni in cui la pietà morì, quel confine fu via di fuga e riparo. Perseguitati politici, cittadini ebrei, nella notte, nella neve. Nella paura. Ancora don Isolini: "In tempo di guerra, poi, dopo l’8 settembre 1943, ci siamo trovati in mezzo a un viavai di persone che abbandonavano l’Italia della Repubblica di Salò, e di altre che invece rientravano per partecipare alla lotta partigiana. Io stesso mi sono servito dei contrabbandieri per aiutare molti a passare il confine. Parecchi li ho nascosti e per questo ho dovuto scontrarmi con le nostre guardie".

Ancora una volta e per una breve parentesi di libertà, la ferrovia fu una via di salvezza. Per quei bambini delle valli italiane, almeno, che nei giorni effimeri e benedetti della Repubblica dell’Ossola salirono sul trenino che li avrebbe condotti a Locarno dove, miracolo, il pane era bianco. Alle loro spalle un confine per proteggerli, lo stesso che altri ne respinse.

Dalle cime della valle lo senti fischiare quel treno, come nella canzone di Dylan. Non sai se per avvertire di uno scarto della Storia o per un cenno d’intesa. Un giorno arrampicavo sulle piodate che il Ruscada distende nel suo sole del sud, e, piantato in una fessura, ho trovato un vecchio cardine arrugginito che fungeva da chiodo a cui assicurarsi. Mi ha ricordato quel resto secolare di tronco che si trova ancora, sotto vetro, in un angolo della Stephanplatz di Vienna, nel quale i maniscalchi in visita alla capitale avevano costume di piantare un loro chiodo, a testimonianza della visita. E in cima a quella montagna mi è parso che anche un ferro carico d’anni avesse un saluto e una storia per me.

 

 

 

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