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NEGLI IMMEDIATI DINTORNIC’era una volta Luino

18.03.15 - 08:00
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO.
C’era una volta Luino
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO.

Nel mio ricordo di sessant’anni fa, in quest’angolino di lungolago c’erano poche barche, una spiaggetta di ghiaia e un pontile minuscolo che timidamente si insinuava nell’acqua. Io ero una mignonetta di cinquesei anni al massimo, quando d’estate raggiungevo i miei nonni paterni a Luino: loro ci venivano in vacanza ogni anno, in un appartamentino affittato da un certo amico ferroviere, il Lusèrta.

Su questo tratto di riva ci venivo col Lusèrta, nonno Mario e zia Giò, che allora frequentava le magistrali. I due uomini, sotto larghi cappelli di paglia per ripararsi dal sole, pescavano: a piedi nudi, coi pantaloni scuri di tela leggermente arrotolati sui polpacci. Le canne di bambù fischiavano elastiche come fruste, lanciando la lenza a grande distanza. «Altrimenti si rischia di pescare solo i mangiamerda», spiegava il Lusèrta, alludendo ai cavedani che frequentavano la vicinanza degli sbocchi di fogna. Tiravano avanti in una quasi perfetta immobilità per tutta la mattina, limitandosi a pochi gesti: per dare qualche strattoncino delicato al fine di “muovere il boccone” e per portarsi alle labbra di tanto in tanto la bottiglia di vino, che tenevano immersa in un secchio riempito di ghiaccio. Con l’intento di farmi star buona, mi contavano allora molte storie sui pesci. È dalla loro bocca che in questo modo ho imparato il coraggio del luccio che irrigidisce le pinne per l’assalto, la furbizia della tinca con la bocca nel fango e la coda alta come un fiore, la bruttezza della grassa bottatrice dal muso di rospo; e l’alborella che corre in sciami argentati, l’anguilla che vien fuori dal sasso come una serpe... Storie d’acqua e di correnti, di venti – l’inverna, il mergòzz, l’aria vachèra che vien giù dal Mottarone – e di vite dedite al lago: «Tanta pappa, poca pipa, niente peppa» ripeteva un po’ misteriosamente il Lusèrta. Ché pappa e pipa sapevo cosa fossero, ma la mancanza della «peppa» non mi era chiara. Però, alle mie domande lui si limitava a rispondere sorridendo: «Se stai fuori di notte a pescare sul lago, la peppa non te la godi». Mah.

Zia Giò se ne stava invece nell’angoletto opposto della breve spiaggetta, sopra un seggiolino pieghevole di legno: osservandola da lontano, avevo l’impressione che parlasse da sola; però, se mi avvicinavo, non la sentivo pronunciare vere parole: pareva semplicemente che facesse smorfie. Apriva infatti la bocca, ma non ne uscivano suoni. «Studia», spiegava menònno Mario, «làssala in pâs». Io allora mi limitavo a correre sulla riva tenendomi sempre un po’ discosta da zia Giò; però la rimiravo di sottecchi, cercando di indovinare il senso di quei vocalizzi muti. Finché lei mi confessò che recitava poesie: doveva mandarle a memoria per il ritorno autunnale a scuola. Me ne sciorinò parecchie che mi lasciarono bocchinaperta.

Col passare dei giorni la faccenda si trasformò in un gioco. Zia Giò articolava un verso, e io cercavo di indovinare di che cosa si trattasse, osservando l’espressione del suo viso e il movimento delle labbra. Fu quello il mio approccio col mondo dei poeti: Pascoli, Carducci, Gozzano... Potevo vedere come i suoi occhi brillavano fino a trasformarsi in due biglie di vetro nero, mentre l’aquilone pascoliano saliva, «Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, / risale, prende il vento...», finché la sua faccia diventava malinconica: «Ma ecco una ventata / di sbieco, ecco uno strillo alto...». Se invece gonfiava le guance in una smorfia pacioccona, stava recitando tra sé «T’amo pio bove».

Tornavamo da quella scuola mattutina di scienze ittiche e di poesia tardo-ottocentesca, quando già il sole alto si mangiava le nostre ombre. Il nonno e il Lusèrta reggevano le lunghe canne e i secchi in cui, tra il ghiaccio che ormai si sfaceva, stavano le alborelle e i persici catturati. Zia Giò spingeva la bicicletta del nonno, reggendola per il manubrio e cantando un ritornello che mi dava brividi di piacere: «Sì, sì che pescherò e la Laura la prenderò...».

Oggi ho girulato innanz-indree per il lungolago, cercando la spiaggetta di allora, senza però trovarla.

Mi sono perfino inoltrata in certe viuzze tentando di individuare la stireria dove lavorava la Felicianna, figlia del padrone di casa. Niente da fare, troppo cemento recente. Introvabile anche il baretto in cui la sera accompagnavo nonno Mario e il Lusèrta a fare la solita partita a briscola con gli amici. Ricordo un antro tinteggiato di verde, che nel retro aveva l’affaccio su un cortiletto coperto da una toppia d’uva americana. Lì, seduta su una banchetta a sorbirmi un bicchiere di spuma alla menta, ho ascoltato storie e storiùcole di cui avrei ritrovato anni dopo il sapore, quando ho cominciato a leggere i romanzi di Piero Chiara. Presèmpio, mi è rimasta impressa la sfortunata vicenda del garzone macellaio che per una pena d’amore se ne andò nella
legione straniera: la storia che allora sentivo contare si tingeva di un nonsoché di fantastico, quando chi narrava concludeva che «il Pino se n’è andato a seppellirsi nel deserto come un faraone»... Oppure la confessione dello stesso Lusèrta, che si recava ogni giorno al cimitero sulla tomba della moglie morta da cinque anni, per scongiurarla di dargli i numeri per vincere al lotto, ma la defunta non si scioglieva neppure alle paroline più dolci e gli rispondeva picche con un silenzio “tombale”. «L’è rabiaa cun mì, so mica ’l perché...», si sconsolava il Lusèrta, ingollando il suo grappino.

Tempo di tre partitelle, poi io e nonno Mario tornavamo a casa. Zia Giò mi metteva a letto nella stanzetta che condivideva con me. Lei però rimaneva sul ballatoio a chiacchierare con la Felicianna, che aveva la sua stessa età. Dalla finestra aperta per il sòffoco sentivo le due ragazze confabulare fitto fitto ridacchiando: ma io ero troppo piccola per intuire l’intimità vertiginosa delle confidenze adolescenziali destinate all’oscurità – quella delle anime e quella della notte. Avevo solo la sensazione che parlassero due fantasmi.

Ora che di nuovo è notte, seduta sulla discesa dell’imbarcadero quasi a livello dell’acqua, contemplo di fronte a me, lontane, le luci della sponda opposta. E nel buio sto ad ascoltare il ciappottìo delle onde: un ritmo lento, ipnotico, da cui mi parlano i fantasmi di questa mia memoria.

Tiro fuori di tasca la fotografia di quella lontana estate, che ho portato con me in questo ritorno a Luino dopo sessant’anni, come una personalissima petite madeleine: è stata scattata proprio qui, in un ridente mercoledì di mercato, quando Luino si scrollava di dosso la solita aria sonnacchiosa e per lo spazio di qualche ora si riempiva di un ambaradàn allegro.

La rimiro alla luce di uno dei fanali dell’imbarcadero, rigirandomela tra le dita. Ché mi dà uno strano brivido – e mi fa male – rendermi conto che in quest’immagine non solo menònno è più giovane di me adesso, ma che zia Giò potrebbe essere tranquillamente la figlia di mio figlio.

Ma forse è proprio per questo che si scrivono racconti: per giocare il tempo.

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