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L'INVI(T)ATOIl profumo dell’americana

26.08.07 - 07:59
di Ovidio Biffi
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Il profumo dell’americana
di Ovidio Biffi

D’agosto sovente (e in questi giorni sicuramente sarà capitato anche a molti nostri lettori) si incontra nell’aria il profumo dell’uva Americana: magari solo passeggiando e costeggiando un giardino o un orto; oppure arrivando in casa di amici e scambiando i saluti sotto un pergolato; oppure, ancora, più semplicemente davanti a un bel grappolo appena. Non so se altre uve, da noi (170 anni fa il Franscini elencava ben 17 diversi vitigni di uve nere e 12 di quelle bianche presenti nella Svizzera italiana), abbiano profumi così intensi. Non mi pare, perlomeno da quel poco che conosco di viticoltura.

Il profumo dell’uva americana per me è straordinario, di sicuro perché collegato alle estati dell’infanzia, ma anche e soprattutto per la dolce violenza che esso esercita nel veloce transito dal naso al cervello. È un profumo intenso, capace di trasmettere le stesse doppie sensazioni segnalate dalla vista o percepite con il tatto. Un po’ come vedere e il toccare un velluto. Non a caso anche gli acini dell’americana, appena colti, non hanno lucentezza o opacità, ma sembrano ricoperti da uno strato vellutato.

Perché questo peana all’uva americana? Perché mi sorge il dubbio – ma ribadisco la mia ignoranza, quindi anche la predisposizione a congetture errate – che con quest’uva noi ticinesi abbiamo un conto aperto, un debito da saldare. Nel senso che questo vecchio vitigno non ha mai avuto alcuna attenzione, come invece si è riusciti a dare (con enormi successi) a quello del merlot. Allora mi chiedo: se non ci fosse stato il merlot, non era forse possibile arrivare a un vino di uva americana in grado di sviluppare non dico un profilo organolettico simile a quello raggiunto con il vitigno bordolese, ma perlomeno proprietà e gusto capaci di offrire ciò che il profumo riesce ancora, e senza alcuna cura, a darci?

La mia peregrina domanda scaturisce dal fatto che con quest’uva si sono ottenuti risultati magari accettabili, ma sempre modesti. Inoltre, almeno a mia conoscenza, sono risultati effimeri: il gusto dell’uva americana lo si ritrova, ma vale magari soltanto nella prima sorsata, raramente si prolunga ed evolve. 

Insomma l’americana non è stata in grado di abbandonare l’etichetta di «nostrano» e continua a subire l’abitudine del «taglio» con un po’ di gazzosa, anche per prevenire certi inconvenienti del... giorno dopo (anche con i primi merlot, ancora nostranelli, fino agli anni Sessanta, era così: al mattino ci si svegliava con cerchio in testa e pesantezza, poi si rimediò). 

Gli esperti, già li sento, mi indirizzeranno maledizioni e prese in giro («ma va là, con l’uva americana è meglio fare grappa; e in serie B sono finiti anche la bondola e altri validi vitigni»). Sarà. Io però continuo a pensare, e a credere, che sarebbe straordinario riuscire a produrre un vino capace di captare e di riproporre anche nel gusto, «nella beva» come usa dire, un profumo così genuine, un profumo che ogni estate riesca a meravigliarti, a dirti che la natura ha compiuto un altro miracolo e che tu, se lo senti, in fondo ne sei partecipe.

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