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L'OSPITEDalla parte di Cappuccetto Rosso

06.02.17 - 17:00
Elio Rè, Biasca
Tipress
Dalla parte di Cappuccetto Rosso
Elio Rè, Biasca

Vorrei cercare di interpretare e spiegare la posizione dei piccoli allevatori che hanno sempre visto in questa attività la continuità delle nostre tradizioni e l’affermarsi della nostra secolare cultura. I nostri genitori e i nostri nonni si occupavano di allevamento di pecore, prima chiaramente come fonte di sostentamento irrinunciabile, poi come attività secondaria indispensabile per far quadrare i conti alla fine del mese o anche semplicemente perché presente nel patrimonio genetico. Non possiamo non collegare questa nostra passione alle esperienze vissute intensamente e all’educazione ricevuta volta all’amore e al rispetto per questo timido ma sempre affettuoso e generoso animale e al territorio. Partirò da molto lontano, da troppo se rapportato all’esperienza di chi auspica acriticamente un ritorno del lupo nelle nostre valli. La Svizzera è un paese ricco di tradizioni, di cultura e di storia che non possono essere banalizzate né tantomeno dimenticate o ignorate. Troppi si riempiono la bocca di teorie sull’integrazione e sugli scambi culturali, sulla necessità del confronto, partendo però dal presupposto che la nostra cultura, le nostre tradizioni, sono superate dai tempi e sono da archiviare. Bell’esempio di dialogo! La pecora ha sempre avuto un posto importante nell’economia delle famiglie biaschesi e di tutto l’arco alpino. Il territorio, difficile da coltivare per tutta una serie di motivi che è inutile elencare, era l’habitat ideale per questo ovino, forte fisicamente , generoso in carne e lana e con limitate esigenze. D’altronde la miseria nelle valli ticinesi era grande : le capre e le pecore hanno permesso la sopravvivenza di tante famiglie. L’arrivo della ferrovia ha portato insperati posti di lavoro. Nonostante le nuove opportunità i nostri avi non hanno mai abbandonato la loro attività di allevatori trasformandola in molti casi in attività accessoria.

Troppo grande era l’attaccamento al territorio che non poteva essere abbandonato e dimenticato e alla cultura dell’allevamento. Lo sfruttamento degli alpi più discosti e impervi, non particolarmente adatti al bestiame bovino, è stato destinato da sempre alle pecore e alle capre. Le capre venivano alpeggiate all’inizio con la presenza del pastore che le mungeva e ne lavorava il latte e poi lasciate libere. Le pecore invece venivano portate sugli alpeggi più discosti e lasciate incustodite. Incustodite è veramente un po’ esagerato dato che molto spesso , e questo per evidenti motivi, il proprietario saliva in alpe a controllarle, verificandone lo stato di salute, intervenendo dove necessario ( zoppina o altro) e controllando l’approvvigionamento di acqua. Questo metodo di allevamento che ci è stato tramandato ancora adesso permette di mantenere le vie di accesso e la percorribilità dei sentieri, sempre più sfruttati da escursionisti, ogni giorno più maleducati, che abbandonano i loro rifiuti , quando va bene, sotto un sasso o che lasciano liberi i loro cani o spaventano con il loro agire gli animali sui pascoli che fuggono arrischiando di ferirsi o peggio. Dobbiamo ben metterci in mente che fanno molte più vittime i cani lasciati liberi degli escursionisti che il lupo o la lince. Questa purtroppo è la triste realtà, che nessuno ammette, ma notoriamente è questo tipo di escursionista che sposa la causa del ritorno del lupo, probabilmente per lavarsi la coscienza o per semplice ignoranza. Parlare di atto irresponsabile quando si lasciano gli animali al pascolo senza protezione è incoerente e poco sostenibile. Il posto della pecora in estate è il pascolo alpino, in piena libertà. Anche gli animali parlano, si esprimono con il loro corpo. Tutti gli anni portiamo le pecore all’alpe. Quando si avvicina il momento cominciano ad agitarsi, le pecore più vecchie riescono a trasmettere questo loro stato d’animo anche alle giovani. Ci arrivano da sole alla meta, e lì rimangono fino in settembre senza cercare di allontanarsi. Quando scendono sono pasciute e sane. Certo, ci possono essere morti dovute a fulmini, alla caduta di un qualche sasso, … ma sono incidenti che coinvolgono spesso anche le persone e sono difficilmente prevedibili: siamo in alta montagna! Allevare pecore è impegnativo, ti dà moltissimo ma non necessariamente finanziariamente. Le nostre piccole aziende le portiamo avanti perché è ciò che ci hanno lasciato in eredità i nostri avi, perché il terreno al piano va lavorato, perché il territorio ai monti non va abbandonato. Questa nostra passione e lavoro è socialmente condivisa da chi ama e percorre la montagna: le informazioni vengono sempre riportate all’allevatore.


Il numero di animali limitato, non dovete dimenticare che la maggior parte di questi allevatori svolge già un lavoro a tempo pieno, non permette la presenza di un pastore che sui nostri alpeggi con un numero insufficiente di bestie e la morfologia del terreno non potrebbe guadagnarsi il pane, i cani da soli non possono svolgere il loro compito, le recinzioni sono una soluzione improponibile. Dobbiamo veramente rinunciare alla secolare presenza della pecora e della capra?

Il proprietario le conosce una a una, sa il carattere di ognuna, le segue anche di notte quando c’è un travaglio che si annuncia difficoltoso. Il suo fischio mette subito in agitazione le sue bestie che al suo secondo richiamo rispondono belando e correndo verso di lui. Una dimostrazione di affetto e fiducia reciproca. Non siamo disposti a rinnegare cultura e storia che ci appartengono e alle quali si vuole contrapporre una visione lontana da noi, inaccettabile culturalmente e economicamente, insostenibile sotto tutti i punti di vista, sia ambientale che paesaggistico o turistico. Questa nostra cultura ha una visione particolare e culturale sui grandi predatori: per noi la difesa del gregge è irrinunciabile e quindi li vediamo come realtà dannosa e con una convivenza assai problematica se non impossibile.

Viviamo e lavoriamo rispettando le tradizioni e il territorio, una nostra eventuale scomparsa farà sì che presto in Svizzera non ci saranno più pecore libere e felici sui pascoli destinati pure loro alla scomparsa, dovremo portare i nostri figli allo zoo a scoprirle assieme alla figura di un allevatore nostalgico seduto davanti alla gabbia a guardare occhi spenti e animali muti. La pecora che conosciamo noi non è così: ma noi non l’abbiamo conosciuta leggendo la scheda su Wikipedia. Chiaramente lo stesso discorso vale per l’altro nostro grande animale che è la capra.
Ritengo giusto e lodevole lavorare per difendere la natura e il rispetto reciproco. Per questo posso concludere lasciando a voi il vostro lupo e le vostre convinzioni e tenendo per me, per noi le nostre pecore e la nostra cultura. Due posizioni probabilmente inconciliabili. Sarebbe accettabile da parte vostra la proposta di rinchiudere il lupo in una riserva con recinti elettrificati, collare e sorvegliati da un drone ? O mi considerereste poco serio , privo di coscienza ecologica e soprattutto ignorante e supponente? Voler reintrodurre il lupo dimenticando i diritti degli allevatori è così per me : insostenibile, frutto di una visione unilaterale e non cognita della realtà , poco seria e offensiva quando si riesce a ridurre il tutto a una questione economica proponendo gli indennizzi per il bestiame predato. È un insulto all’intelligenza e al lavoro!

Per concludere, chi vuole il lupo nelle nostre valli (e di solito non ci abita) dovrebbe tenerlo sotto controllo per rispetto del lavoro degli allevatori ( possibilità di difficile attuazione ) o considerarlo un anello della catena fatta di predatori, prede, … e allevatori, con chi vive la montagna dalla loro parte, con la riconosciuta possibilità di poter difendere il proprio gregge con tutti i mezzi a disposizione.

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