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L'OSPITEChiuso per crisi, il Ticino che sta morendo

26.08.16 - 10:52
Carlo Coen, Presidente GCC
Foto d'archivio (Tipress)
Chiuso per crisi, il Ticino che sta morendo
Carlo Coen, Presidente GCC

Chiuso per crisi: in tutto il Ticino scompaiono negozi e botteghe storiche. Non è un Paese per negozi. Se fosse uno sceneggiato sarebbe "Cento vetrine (che chiudono)". Invece è la triste realtà ticinese del 2016. Ricordatevi del bar dove avete fatto colazione questa mattina, tenete bene a mente il benzinaio dove vi siete fermati prima di partire per il weekend. Perché la prossima volta che ci passerete davanti, chissà, al loro posto troverete una saracinesca abbassata. Chiusi per ferie? Macché, chiusi per crisi, affitto e pure per colpa di una app . Purtroppo non è una fiction, ma la realtà per una larga fetta di Paese che non vede la luce della ripresa perché è ancora intrappolata nel tunnel dei conti che non tornano. E alla fine si è costretti a gettare la spugna.

Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finché possibile.

Un allarme che sbaglieremmo a considerare sia solo un affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. I negozi sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro. Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine.

Certi giorni scendo in strada e non riconosco la mia città. Bellinzona, Lugano, Mendrisio, Chiasso … è sempre uguale. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, abbigliamento, bigiotteria, le librerie o le edicole.

Non passa settimana senza un bollettino di guerra dal fronte del commercio. Che ci sia una crisi dei consumi è sotto gli occhi di tutti e le cause sono purtroppo ben note. Basta guardarsi attorno, a partire da casa propria, per capire che stiamo precipitando in una nuova austerità, in parte obbligata (cos’altro puoi fare quando perdi il lavoro?) e in parte psicologica (ti freni anche se potresti permetterti l’acquisto). Ma la crisi da sola non può spiegare questa “catastrofe” e pensarlo forse rassicura ma non aiuta certo a prepararsi al dopo, a pensare il futuro e la crescita possibile. Se non ci si vuole fermare alle comprensibili lamentazioni di fronte a tante saracinesche che si abbassano per sempre e tantissimi lavoratori che si ritrovano da un giorno all’altro senza un’occupazione, sarebbe necessaria una più attenta lettura del fenomeno, che del resto va avanti da qualche anno. Sarebbe utile un’analisi più approfondita delle chiusure, per avere dati di comprensione più potenti e andare oltre diagnosi del tipo: è morto perché gli è mancata l’aria.

Perché si chiude? Colpa della crisi economica che ha stravolto le abitudini delle famiglie? I consumatori svizzeri spendono 8,9 miliardi di franchi in acquisti all’estero, principalmente per generi alimentari, articoli per l’igiene personale e abbigliamento,i ticinesi battono tutti nel turismo degli acquisti. Difatti dal Ticino l'aumento svizzero maggiore, il 41% fa acquisti una o più volte al mese in Italia o in altri paesi, il 31% nelle altre regioni confinanti. Nel 2015 spesi dai ticinesi 514 milioni di franchi all'estero, il 49% in più di due anni prima. Complessivamente viene realizzato all’estero il 5 per cento dell’intero fatturato al dettaglio svizzero. Se si considerano anche le spese fatte in maniera “spontanea” durante le vacanze e i viaggi di lavoro, che ammontano a 3,8 miliardi di franchi, si arriva agli 8,9 miliardi su menzionati.

Ci lamentiamo perché non vogliamo l’Europa ma ne sosteniamo l’economia, invece che sostenere la nostra. Dovremmo dire “Prima i NOSTRI COMMERCI”. Più economia uguale più posti di lavoro. E non solo per i frontalieri ma soprattutto per i ticinesi.

Carlo Coen, Presidente GCC

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