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PAESI BASSITimbuktu, il capo jihadista chiede perdono

22.08.16 - 15:22
Ahmad al-Faqi al-Mahdi, che nel 2012 ordinò l'attacco alle antiche moschee della città, si dice «davvero dispiaciuto» e pentito «del danno che ho causato»
Timbuktu, il capo jihadista chiede perdono
Ahmad al-Faqi al-Mahdi, che nel 2012 ordinò l'attacco alle antiche moschee della città, si dice «davvero dispiaciuto» e pentito «del danno che ho causato»

L'AJA - Ahmad al-Faqi al-Mahdi, il capo jihadista che nel 2012 ordinò l'attacco alle antiche moschee di Timbuktu, patrimonio dell'umanità, si è dichiarato oggi colpevole e ha chiesto perdono al popolo del Mali di fronte al Tribunale penale internazionale dell'Aja, che per la prima volta apre un processo relativo alla distruzione di beni culturali.

«Cerco il loro perdono e chiedo loro di guardare a me come a un figlio che ha perso la strada», ha detto l'imputato, aggiungendo di essere «davvero dispiaciuto» e pentito «del danno che ho causato».

Mahdi, 40 anni, è il primo maliano e il primo estremista islamico ad affrontare il Tribunale penale internazionale. Fu lui, frustrato dall'ostinazione dei fedeli a recarsi nelle moschee della "città dei 333 santi" nonostante le minacce, a decidere di distruggerle tra il 30 giugno e l'11 luglio del 2012 privando, ha affermato il magistrato Fatou Bensouda, «le future generazioni dei punti di riferimenti e della propria eredità storiche».

Quello messo in atto da Mahdi, membro del gruppo terrorista 'Ansar Dine', che quattro anni fa era riuscito a prendere il controllo di Timbuktu insieme con 'Al Qaida nel Maghreb islamico', è stato «un assalto contro la storia di un popolo» e contro lo stesso Islam, che tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo ebbe nella città un centro autorevole di insegnamento e diffusione.

«A colui che distrugge in questo modo ciò che incarna l'anima e le radici di un popolo dovrebbe essere permesso di fuggire», ha aggiunto il magistrato che sostiene l'accusa e che rivolge così un implicito monito a coloro che, nel corso delle guerre, hanno diretto la loro furia contro i patrimoni culturali, come è accaduto nella siriana Palmira.

Conosciuta anche come 'la città dell'oro', 'dei 333 Santi' o 'la perla del deserto', Timbuktu è situata a nord del fiume Niger, a circa mille chilometri dalla capitale maliana, Bamako. Dal 1998 nella lista dei luoghi considerati dall'Unesco Patrimonio dell'Umanità, fu fondata tra il V e l'XI secolo dai tuareg e per secoli fu il luogo di incontro dei nomadi del deserto, non solo tuareg, ma anche berberi, arabi e africani.

Il commercio di oro, sale, avorio e libri la trasformò nel giro di pochi secoli in una delle città più opulente dell'Africa occidentale, magnete di intellettuali, architetti, scribi e giuristi, tanto da divenire rapidamente un importantissimo centro di irradiazione della cultura islamica.

La leggenda dell'oro di Timbuctu risale al 1324, quando l'imperatore del Mali, Kankan Moussa, fece un pellegrinaggio alla Mecca: il giovane sultano, appena 17enne, era seguito da 60mila portantini e ognuno di loro portava con sé 3 chili d'oro puro, proveniente proprio da Timbuktu. Al suo ritorno, Moussa costruì la moschea di Djingareyber. E così la mitica città dell'oro dell'imperatore Moussa è entrata nell'immaginario collettivo come metafora di lontananza, esotismo e ricchezze tanto da evocare l'idea di un posto così remoto che potrebbe anche non esistere.

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