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LUGANO"Ecco perché dopo quarant’anni porto ancora i Mummenschanz sul palco"

07.02.14 - 09:43
Pensieri, sogni, dubbi, paure: Floriana Frassetto, fondatrice della compagnia che stasera si esibisce a Bellinzona, si racconta.
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"Ecco perché dopo quarant’anni porto ancora i Mummenschanz sul palco"
Pensieri, sogni, dubbi, paure: Floriana Frassetto, fondatrice della compagnia che stasera si esibisce a Bellinzona, si racconta.

LUGANO - Non sospettava certo che sarebbe finita così: se fine si può dire, quando la storia è lunga quasi mezzo secolo e la voglia di andar oltre sempre uguale, e di sognare al modo in cui fanno sognare le sue maschere. «Non avevamo affatto la pretesa di costruire una carriera che sarebbe durata così tanti anni», racconta oggi Floriana Frassetto, 64 anni, fondatrice dei Mummenschanz nel ’72 assieme a Andres Bossard e Bernie Schürch. E sarà anche un caso il 4 che spicca nel titolo dello spettacolo, da stasera a Bellinzona per un totale di sei esibizioni: ma prescinde dalle intenzioni e rimanda ai quarant’anni di successi fuor dell’ordinario che la compagnia ha celebrato fino all’anno scorso, con due anni di tournée. “Mummenschanz 4families” è una prosecuzione della festa, allargata anche i bambini: fruitori ideali di un’arte che val bene per gli adulti e ogni età o, per dirla come lei, « i bambini di tutte le età».

Avere quarant’anni ed essere chiamati “moderni”: contraddizione apparente di una lingua che lei, forse non per caso ma proprio per questo, nei suoi spettacoli ha rifiutato, inadeguata ad assolver la funzione assegnata per una consuetudine.

 

Floriana, lei come si sente: moderna, antiquata, invecchiata?

«Io mi sento modernamente classica. Mi spiego. Il lavoro dei Mummenschanz è molto difficile: arrivare al nocciolo dell’astrazione, senza parole e senza musica, solo con le forme che cambiano ed esprimono emozioni. Bene, le emozioni in quarant’anni non cambiano. Forse cambiano i materiali, le luci: adesso abbiamo il gusto di mettere tanta luce che si deve muovere, tanta musica che dev’essere forte. In questo senso siamo rimasti classici. Nel senso estetico, siamo rimasti estremamente moderni».

 

Come è nata l’idea dei Mummenschnanz?

«È nata da tre infanzie ognuna a modo suo un po’ particolare e difficile. Ci era rimasta da qualche parte la voglia di giocare: alla fine degli anni Sessanta, noi tutti e tre molto sessantottini, io a Roma loro a Parigi, ci siamo incontrati e abbiamo messo insieme quello che non era affatto una pretesa di costruire con successo una carriera che sarebbe durate così tanti anni. Volevamo andare per le strade, davanti alle fabbriche, nei teatrini, dinnanzi agli operai nelle pause di lavoro. Abbiamo fatto un po’ di tutto, all’inizio. Man mano abbiamo capito che dovevamo rinunciare alla parola. Già, perché all’inizio parlavamo: recitavamo testi assurdi, un po’ dadaisti. Poi abbiamo deciso di creare questo mondo di silenzio. Abbiamo costruito un mondo di comunicazione critico. Criticavamo la difficoltà di comunicazione fra gli esseri umani, la difficoltà nei rapporti sentimentali: ma sempre in una chiave leggermente ironica e poetica. Abbiamo tentato di mettere in questione le problematiche della vita lasciando uno sfogo e una speranza».

 

È vero che fu lei a suggerire di abbandonare l’uso del linguaggio?

«Fu l’esito di un percorso fatto insieme. Era impossibile tradurre i testi dal francese al tedesco o all’italiano, perché il ritmo della lingua è diverso. Così ci siamo detti: proviamo».

 

Perché “Mummenschanz”?

«Mummen viene da un termine che significa mimetizzarsi, coprirsi, mascherarsi. Schanz è la fortuna. La fortuna di coprirsi, mascherarsi».

 

La maschera nasconde o rivela?

«La maschera non nasconde per niente: è questa la cosa buffa. Io mi nascondo molto più facendo una smorfietta o gli occhioni. Invece con il corpo, con il plesso solare, riveli il tuo vero stato d’animo».

 

Nella scelta di utilizzare le maschere c’entra la Commedia dell’arte?

« C’è un bel pizzico di commedia dell’arte, non c’è dubbio».

 

Privata però della parola. È mai stata tentata di reintrodurre il linguaggio, piuttosto che una coreografia elaborata?

«No. C’è chi lo fa già cosi bene…».

 

E la musica?

«Ma la nostra musica siete voi, il pubblico, con le vostre risate, i vostri sospiri, le vostre parole. La risatina inaspettata a Oslo o quella di un bambino più piccolo del solito. Noi abbiamo grandi orecchie o tante piccole antennine per sentire voi e modulare il nostro ritmo seguendo voi. Trovo che questa sia una grande libertà. Qualcuno talvolta ci ha invitato a mettere la musica, ma il 99,99% del pubblico invece ci dice “Che meraviglia, finalmente uno spettacolo in cui non c’è la musica troppo forte”. Oppure chiede: “Che musica ho sentito?”. E quello è il massimo».

 

Ma lei ascolta musica nel quotidiano?

«Assolutamente: da Bach ai Beatles a Paolo Conte. Adoro tutta la musica, amo molto quella popolare ma anche la musica classica. Ascolto il jazz, purché non sia troppo moderno e intellettuale. Mi piace scoprire. Ascolto anche la radio, le nuove proposte».

 

E una nuova proposta dei Mummenschanz, invece, come viene concepita: di che cosa ha bisogno per nascere?

«Nasce quando meno te l’aspetti. Quando ti siedi a un tavolo davanti a un foglio bianco e vuoi avere un’idea, puoi essere sicuro che non verrà. È praticamente impossibile. Poi fai un giro in atelier, trovi un materiale, oppure fai un sogno, o una passeggiata nel bosco o in un museo e improvvisamente… Le idee sono un accumulo di quello che vivi, che leggi, della tua esperienza».

 

Ha mai avuto voglia di smettere?

«No. Delle volte vorrei smettere per il disagio che provoca questo trascinarsi nel mondo economico. Il problema di chiedere a persone che ti copiano “Ma perché?”. L’aspetto organizzativo mi ha delusa. Mi piacerebbe che qualcuno di molto facoltoso un giorno investisse su di noi, ci concedesse un anno sabbatico per mettere a punto un nuovo spettacolo».

 

Sul palco invece si diverte ancora?

«Mi diverto e dimentico tutti i problemi. Mio papà è venuto a mancare mentre ero a Stoccarda: il pubblico è come se avesse sentito che doveva dare quell’amore in più. Alla fine mi sono messa a piangere, talmente era caloroso».

Nemmeno la morte di Andres Bossard nel ’92 l’ha fatta vacillare?

«Nemmeno. È la mia vita. Ho solo rinunciato a fare certi numeri che il mio fisico non potrebbe più reggere. Ma lo accetto».

 

Riesce a immaginare i Mummenschanz senza di lei?

«Non vedo perché».

 

Nel futuro cosa vede?

«Belle tournée, belle sale, posti dove non siamo mai stati, tipo l’Arabia saudita o altri Paesi arabi dove uno spettacolo così pulito come il nostro potrebbe funzionare. Sogno di fare una parte in un film di Steven Spielberg. Ho miei sogni da bambina che magari non si avvereranno: però sognavamo di Broadway e ci siamo stati tre anni. Non mi arrendo».

 

Cosa è cambiato in questi quarant’anni, oltre al suo corpo?

«Le tecniche. All’inizio c’erano le maschere facciali, poi le maschere sopra la testa che alludevano appunto al “perdere la testa”, nel 2000 abbiamo iniziato il lavoro degli oggetti bidimensionali da tenere dinnanzi a noi. Ma le emozioni non sono cambiate, non cambiano. Abbiamo tutti un gusto un po’ amaro in bocca, ma ci piace pensare in modo positivo, volerci bene».

 

Lei crede in Dio?

«Assolutamente sì e completamente. E mi fa proprio bene, perché in questo periodo mi sono sentita anche molto sola».

 

Mano enormi, grandi occhi, figure che alludono all’uomo senza essere umane… le sue creature non ricordano Dio, quantomeno il Dio dell’immaginario di un fanciullo?

«Sì, ma è un caso. Per esempio: le nostre mani sono venute dal modo di descrivere i tecnici teatrali in America, dove sono definiti “stagehands”, mani del palcoscenico. In questo spettacolo ci sono anche due angeli: una storia d’amore fra due angeli».

 

Uno spettacolo pensato per i bambini: i Mummenschanz a chi aspirano a rivolgersi?

«Ai bambini di tutte le età. In questo caso l’esibizione è rivolta più del solito al giovane pubblico perché dura un’ora. Si tratta di una cernita dei 40 anni con qualche nuova creazione. Da vedere. I bambini ridono, gridano “Voglio il pallone io”, guardano con gli occhi grandi, curiosi di sapere cosa sta per venire ancora. È bello».

 

Sa che i biglietti sono andati a ruba qui in Ticino?

«Davvero?».

 

Però confessi: lei si sente svizzera o italiana?

«Io mi sento Mummenschanz».

 

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