Il suicidio dell'ex ceo Zurich Martin Senn ripropone il legame fra posizioni di vertice e insoddisfazione. Paradosso? «Macché», spiega la psicologa
ZURIGO - Aveva lasciato Zurich appena sei mesi fa: in qualche maniera di sorpresa, investito dalle critiche per una gestione societaria non all'altezza delle sue possibilità. Un'uscita di scena drammatica, carica di amarezza e delusione, che sarebbe all'origine del gesto di venerdì scorso: quando Martin Senn, 59 anni, ceo dal 2009 al 2015 dopo cinque anni in prima fila a Credit Suisse (2001-2006), ha preso la pistola e si è sparato in testa, nella sua casa di vacanza di Klosters, Grigioni.
Una morte che scuote la compagnia, alle prese con il secondo suicidio di un manager in nemmeno quattro anni: nell'agosto del 2013 era stata la volta di Pierre Wauthier, 53 anni, congedatosi dalla vita con una lettera d'addio in cui accusava Zurich di «un clima di lavoro sfavorevole». E che riporta alla ribalta il paradosso della relazione fra apice del successo e insoddisfazione personale; disagio psicologico, depressione, fragilità.
Carsten Schloter, presidente Swisscom, luglio 2013; Adrian Kohler, capo di Ricola, novembre 2011; Gunter Sachs, industriale tedesco, maggio 2011; Markus Reinhardt, responsabile della sicurezza del Forum di Davos, gennaio 2010; Alex Widmer, numero uno di Julius Bär, dicembre 2008. «I problemi iniziano proprio a riscontrarsi non quando si è in corsa, ma quando si è arrivati: e non bisogna più creare, ma lottare per difendere la posizione conquistata», riflette Bohumila Della Briotta, psicologa del lavoro di Locarno con esperienze di consulenza a «persone affette dallo stress lavorativo» così come a chi è in cerca di un impiego.
Dottoressa, chi è più a rischio?
«Non c'è una categoria più a rischio di un'altra. Dipende anche dalla predisposizione emotiva: ma di sicuro l'isolamento con cui è costretto a convivere un manager e le responsabilità elevatissime di cui è caricato non aiutano».
Incidono?
«Senza dubbio. Lo stress professionale, la solitudine restringono progressivamente il campo d'azione: fino ad arrivare a credere di non avere più altra via d'uscita».
Colpa della posizione di vertice?
«Esatto: anche. Più ci si trova in alto, più si è soli. Il manager è colui che deve decidere per gli altri e non parla con nessuno: altrimenti troverebbe forse scampo. Senza confronto, quando una visione globale viene meno la morte sembra l'unica strada: e non c'è nessuno a mostrare che le cose non stanno così come pare».
L'uomo comune però non si capacita: si domanda come gente che ha tutto possa soffrirne. O soffrire.
«Già: ma chi dice che hanno tutto? È una questione di prospettiva: è il nostro punto di vista, non il loro. Ammesso poi che dietro non vi siano altre preoccupazioni: una malattia, un divorzio. Quello di cui non bisognerebbe capacitarsi, piuttosto, è perché nessuno se ne accorga per tempo».
Lei come risponderebbe?
«Le ditte non si occupano della salute sul lavoro, non seguono abbastanza il loro personale. Oggigiorno non c'è tempo, voglia. Se si vuole aiuto bisogna cercarlo fuori, da soli. Sarebbe bene invece introdurre stabilmente la figura dello psicologo interno all'azienda».
A chi dovrebbe dedicare attenzione?
«Il momento più critico è intorno ai 45-50 anni, quando la fase creativa si esaurisce: spesso semplicemente perché si è giunti a destinazione. Le motivazioni del disagio, poi, possono essere diverse».
Differenze di genere?
«Le donne sono per lo più afflitte da problemi emotivi. Per gli uomini, è la carriera».
Dottoressa: perché si muore di lavoro?
«Perché manca un'idea. Certo a pensarci è triste: nel mondo c'è una persona capace in meno».