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MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIAGenocidi e diaspore, l'attualità di "The Cut"

31.08.14 - 19:24
Il film di Fatih Akin è uno dei più attesi quest'anno in Laguna
Keystone
Genocidi e diaspore, l'attualità di "The Cut"
Il film di Fatih Akin è uno dei più attesi quest'anno in Laguna

VENEZIA - "The Cut" di Fatih Akin è uno dei film più attesi della Mostra del cinema di Venezia quest'anno: il regista tedesco di origine turca aveva vinto il premio speciale della giuria nel 2009 con la commedia Soul Kitchen e si era fermato, incagliato su questo progetto tenacemente inseguito.

"Ci ho impiegato 7-8 anni, dall'ideazione alla realizzazione e ho avuto anche minacce, ma sono piccola cosa di fronte a questo film sulla storia dell'umanità, che parla al cuore. Non ho avuto dubbi ad andare avanti perché per l'arte vale la pena di morire", dice con la passione cui ha abituato il suo pubblico sin dalla Sposa turca.

L'attesa è rimasta un po' delusa proprio perché con il passare del tempo questo "The Cut" è diventato un kolossal infinito, una storia di dimensioni bibliche e dall'esito non felicissimo. Un crimine indimenticabile ossia il genocidio del popolo armeno nei primi anni del '90, un viaggio incredibile, dalla Turchia all'America del Nord passato per la Siria, il Libano e Cuba e un amore infinito, quello del protagonista alla ricerca della sua famiglia.

Tutto questo partendo da un villaggio bucolico e arrivando nel selvaggio west americano, mixando tragedia storica e western, Ceylan e Scorsese, l'Odissea, la Bibbia e Schindler's List. Scorsese non è citato a caso, visto che è del grande regista americano la dedica più preziosa ricevuta dal film, definito "di intensità e bellezza grandiose" ed è di un collaboratore storico di Scorsese, l'anziano Mardik Martin di origine armena (autore di Mean Streats, New New New York, Toro Scatenato) la co-sceneggiatura di "The Cut". "Ho seguito le regole del film di genere - osserva Akin - per raccontare questa storia e provocare l'empatia verso questo eroe e arrivare ad un pubblico più vasto possibile".

Il protagonista Nazaret, Tahar Ramin (l'attore francese di origine algerina lanciato dal Profeta di Jacques Audiard), è un fabbro di un piccolo villaggio. Ha una moglie e due figlie gemelle, ha la croce cristiana tatuata sul braccio e una vita felice. Siamo nel 1915, scoppia la prima guerra mondiale e da quel momento la minoranza cristiana degli armeni è in pericolo in quello che è l'impero ottomano della mezzaluna islamica. Strappato alla famiglia, costretto a lavorare nel deserto, Nazaret è sempre sul rischio di morire, di percosse, di sete, di fame o di fatica. Lo tiene vivo la fede e il desiderio di ricongiungersi alla famiglia.

La sua gente è sterminata, il campo profughi è un lazzaretto, i suoi parenti morti ma le due gemelle vive da qualche altra parte del mondo. Le cercherà letteralmente per mare e per terra dall'altra parte del globo fino a che non le troverà. Un tema universale e attuale, la fuga, l'emigrazione, la diaspora, l'integralismo religioso. "È una storia di sopravvivenza, di ricerca e di spiritualità, Nazaret perde la fede, si libera dei dogmi religiosi ma è guidato dalla speranza", spiega Akin. Uno dei suoi attori, Simon Abkarian dice "è il primo film sul genocidio armeno, un massacro che alcuni non vorrebbero neppure riconoscere. Ne sono felicissimo, spero sia l'inizio di una serie anche se la lobby del governo turco si opporrà".

Tra le cose che hanno diviso la stampa, la scelta di girare in inglese: "Ci sono precedenti, Bertolucci nell'Ultimo imperatore o Polanski nel Pianista, ad esempio. Io volevo avere il controllo dei dialoghi, io stesso non conosco l'armeno e non volevo avere il set presidiato da coach che insegnavano l'accento giusto. Non ci sono scelte di marketing ma la voglia, questo sì, di arrivare a tutti". Il film, che conclude la trilogia su Amore, Morte e Diavolo, è co-prodotto dalla Bim che lo distribuirà nel 2015.

ats ans

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