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LUGANOMa quale topo da museo. Coraggio, venite un po’ a vedere

17.07.14 - 06:07
Alla sua prima mostra, da domani al museo delle culture, Moira Luraschi prova a sfatare i pregiudizi e su quello che fa. "Lavoro noioso chiusi in una stanza? Macché. Il contatto con la gente è fondamentale"
Foto Davide Rotondo
Ma quale topo da museo. Coraggio, venite un po’ a vedere
Alla sua prima mostra, da domani al museo delle culture, Moira Luraschi prova a sfatare i pregiudizi e su quello che fa. "Lavoro noioso chiusi in una stanza? Macché. Il contatto con la gente è fondamentale"

LUGANO - Qualcuno le ha chiamate carabattole. Non facile vedere il tuo lavoro sminuito con tanta leggerezza. Meglio far spallucce e fidarsi di commenti e complimenti sopra il libro delle visite, passare oltre e preparare la mostra che a breve ha da venire.

Quella che si inaugura quest’oggi al museo delle culture è la prima di Moira Luraschi, borsista da tre anni per la fondazione Ada Ceschin Pilone, dedita alla promozione dell’arte orientale. "Ho cominciato catalogando e studiando la loro collezione di fotografie. Gento-ban invece nasce dall’incontro con il collezionista Claudio Perino, medico specialista in neurofisiologia e appassionato di Giappone". Raccoglie l’eredità del direttore Paolo Campione, esperto di cultura giapponese e curatore nel 2010 dell’esposizione Ineffabile perfezione. "Dopo di che c’è stata Shunga, sulle stampe erotiche giapponesi. Poi sono arrivata io". Fino a quel momento aveva avuto altri interessi, altre maniere. "Ho una formazione da antropologa, ma mi occupavo di Africa subsahariana. Facevo ricerca sul campo, lavoravo con la gente". Oggi maneggia immagini di vetro e al microscopio, guarda la grana della fotografie per giungere a quello che sta dietro. Se le chiedi come si diventa appassionati o esperti di Giappone, la prima risposta è "per caso". 

Moira, difficile stravolgere un percorso?
"Non parlerei di stravolgimento. È un’opportunità. Finché resti in ambito universitario, sei inchiodato al tuo campo di ricerca. Qui lavori sulla base delle collezioni che arrivano. Sono tre anni che mi occupo di Giappone: come un dottorato".

Che cosa ti ha dato?
"È cambiato il mio modo di lavorare. Prima ero più a contatto con le persone, ora lavoro con le cose e gli oggetti. Ma la mia teoria è che gli oggetti possono parlare come le persone, solo devi trovare le domande giuste da porre".

Le tue quali sono state?
"Bisogna prestare attenzione al punto di vista. Questa mostra è dedicata alle foto giapponesi di fine Ottocento e ai gento-ban, cioè le riduzioni su vetro dei negativi che poi venivano posizionate in una lanterna magica e guardate nella loro proiezione sul muro in Occidente. La domanda non è che cosa la foto rappresenta. La domanda è: che cosa il fotografo vuole mostrare?"

La risposta?
"Qualcosa a metà tra quello che l’Occidente voleva vedere del Giappone e quello che i giapponesi volevano vedere del loro passato. Parliamo di un’epoca, l’epoca Meiji, in cui il Giappone stava cambiando, si stava modernizzando. Ma le immagini non rappresentano questo. Rappresentano un mondo che stava scomparendo. Bisogna andare oltre l’idea che le foto sono  naturali. Sono studiate, a volte frutto di una logica di mercato. Fino agli anni ’90 del Novecento non avevano valore né erano di moda, erano foto per turisti. Oggi i giapponesi invece se le stanno ricomprando".

Essere antropologo: ci spieghi che cosa vuol dire?
"Pensare a un antropologo in un museo è strano: lo si immagina ad andare nei Paesi, impararne la lingua, entrare in contatto con la gente locale. Ma non è così contraddittorio. Quando è nata l’antropologia, l’antropologo lavorava proprio nei musei: altri facevano ricerca per lui. Il nucleo del lavoro è avere a che fare con altre culture: che siano persone o oggetti non cambia molto. Gli oggetti arrivano da un altro posto, in questo caso anche da un altro tempo. Aumenta la distanza culturale".

Il tuo compito è annullarla?
"Non annullarla: comprenderla. Nel senso etimologico, prenderla insieme. Non si può annullarla. Gli oggetti rimangono qualcosa di imprescindibile da te".

Tecnicamente che cosa fai?
"Prima di gento-ban, catalogavo la collezione di fotografie Ceschin Pilone. Si tratta di sapere quanti pezzi ha una collezione, attribuire un numero di inventario, descriverli, documentare il loro stato. Prendersi cura di una collezione e studiarla".

Come si fa?
"Attraverso i libri".

Se si tratta di inediti?
"Cerchi somiglianze con altre opere che sembrano affini".

E se i libri mancano?
"Con Gento-ban in parte è stato così. In Occidente c’è poco o nulla. Quando la bibliografia è scarsa, si studia l’oggetto. Lo guardi, lo pesi, lo misuri. E inizi a scoprire delle cose, per esempio che i pesi sono diversi. A seconda delle analogie, puoi dividerli in gruppi".

Organizzare una mostra quanto tempo richiede?
"Il progetto è partito a gennaio. Fare una mostra vuol dire contattare il collezionista, farti spiegare le sue opere, i criteri con cui le ha acquistate. In questo caso si tratta di acquisti su internet. Si va dal rapporto con collezionista all’allestimento:  ma fare i conti con gli spazi e il budget non è stato compito mio. Si cura il catalogo: si descrivono gli studi svolti, si collabora con grafici ed editori, si cercano contributi esterni".

Mai nostalgia di una “ricerca sul campo”?
"Conto di fare ricerca in Giappone, prima o poi. Ma l’antropologia museale non prescinde da essa. Non si possono trascurare le persone: altrimenti non funziona. In questo caso è venuta qui una ricercatrice giapponese esperta della scuola Yokohama".

Paura di non farcela?
"Certo. Per fortuna si lavora in staff. I colleghi mi hanno dato  indicazioni sul metodo. E dagli errori si impara".

Che cosa affascina del Giappone?
"Il fatto che sia così lontano e così vicino. Un posto dove il moderno non fa a pugni con la tradizione. In Giappone trovi grattacieli accanto a templi e terme.  Le categorie di vecchio e nuovo collidono".

L’interesse è in crescita. Hai riscontro?
"Assolutamente. Sarà il fascino esotico, il fatto che è il più Oriente degli Orienti.  Il Japan Matsury di Bellinzona, con 3500 visite in due giorni, è stato un risultato enorme".

Ti senti più fortunata dei colleghi che si occupano di culture meno in voga?
"Ne parlavo giusto in occasione della mostra di arte aborigena contemporanea che sta avendo un grande successo. Se intercetti un trend modaiolo, il risultato è garantito. Se non è di moda, puoi organizzare la mostra più bella al mondo ma non va. Il trend del Giappone c’è. Non so se ci sia il trend delle foto giapponesi".

Perché venire a vederle?
"Posso essere banale? Perché sono belle. E si ricrea l’atmosfera della fruizione di fine ’800, in un certo senso il prototipo delle sale cinematografiche".

Che cosa sarà in mostra?
"Ci saranno tre sale. Una con 56 dei 131 vetri gento-ban e una ventina di fotografie. Una sarà allestita con le cromolitografie, cioè le stampe a colore tratte dalle stereografie: si tratta di immagini doppie che sono un po’ il 3D dell’epoca. Si basano sul principio dello stereoscopio, dove le lenti correggono lo sguardo e fanno sì che le immagini si sovrappongano. Metteremo a disposizione degli stereoscopi senza lenti per poter guardare le cromolitografie, ci saranno anche delle copie con cui il pubblico potrà giocare. Nella terza sala ci sarà una lanterna magica originale, prestito del museo di Vevey, con cui si guardavano i gento-ban, a scopo didattico oppure ludico. Si cercherà di ricreare l’esperienza di allora attraverso la proiezione di copie digitalizzate". 

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