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ATTUALITÀI mercati azionari sono cari. Davvero?

15.07.14 - 11:18
La politica monetaria globale è ancora estremamente espansiva
Foto Keystone
I mercati azionari sono cari. Davvero?
La politica monetaria globale è ancora estremamente espansiva

LUGANO - I listini azionari (statunitensi) sono recentemente entrati in territorio inesplorato: i due principali indici hanno infatti raggiunto i massimi storici, il Dow Jones Industrials Average in particolare ha toccato quota 17.000. È ormai da tempo che da più parti si sostiene che ad alimentare tali rialzi non siano i fondamentali economici ma le ingenti iniezioni monetarie (da parte delle principali banche centrali). Ciò sembra confermato dal fatto che i rendimenti azionari conseguiti lo scorso anno negli Stati Uniti sono attribuibili all’espansione dei multipli (rapporti P/E) anziché alla crescita degli utili. La medesima indicazione, ovvero che i mercati azionari, in particolare nelle economie mature, siano costosi rispetto ai loro fondamentali di lungo termine giunge anche dai nostri “barometri di mercato”. Ciò è vero sia per i listini il cui andamento è legato al contesto macro sia per quelli di stampo micro, che sono trainati esclusivamente dai rapporti di bilancio (aggregati nazionali).

Tuttavia, la politica monetaria globale è ancora estremamente espansiva, con tassi d’interesse rasoterra e programmi di allentamento quantitativo in atto. Abbiamo mostrato in passato (con semplici analisi di regressione) che, come suggerisce la teoria monetaria, la moneta in eccesso finisce per affluire da qualche parte – di solito in parte nell’economia reale e in parte nei mercati finanziari. In questo caso, tuttavia, a causa degli atteggiamenti da “trappola di liquidità”, l’impulso monetario sembra essere stato utilizzato soprattutto per “oliare” le ruote dei mercati finanziari. In pratica, i listini azionari continuano ad apprezzarsi in quanto gli speculatori possono mettere più facilmente a frutto i loro investimenti e perché la liquidità in eccesso favorisce il cosiddetto attivismo societario (una combinazione di programmi di riacquisto azionario e attività di M&A). Inoltre, forse a causa del summenzionato orientamento monetario, gli operatori di mercato sembrano escludere eventuali scenari recessionistici a medio termine.

 

Pertanto, alla luce di questi fattori, ci chiediamo se il segnale “caro” che proviene dai barometri sia davvero vincolante o se non possa essere una falsa indicazione – nel senso che le azioni stanno diventando sempre più costose (rispetto ai fondamentali) e il ritorno dei prezzi su livelli di equilibrio viene indebitamente ritardato. Di fatto, oltre alle ragioni citate, c’è un’altra importante precisazione da fare in merito alle “valutazioni”, ovvero che il premio al rischio azionario (ERP) appare ancora insolitamente alto rispetto alle medie storiche e/o ai livelli di equilibrio nozionali suggeriti dalla teoria (attorno al 3%?). Ciò risulta chiaro dal grafico del premio al rischio azionario stimato in basso a sinistra.

D’altra parte, dobbiamo anche contemplare situazioni in cui alcuni sviluppi potrebbero davvero rendere le azioni vittima delle elevate valutazioni di cui abbiamo parlato. Uno di questi potrebbe essere un’abbreviazione dei tempi entro cui è atteso primo rialzo dei tassi (negli Stati Uniti) rispetto alle precedenti previsioni. Indicazioni in tal senso sono giunte di recente da alcuni importanti analisti, che sono molto ottimisti circa le prospettive dell’economia statunitense. Un altro fattore potrebbe essere (quello che anche la Fed giudica) un clima di eccessiva fiducia nei confronti dei mercati azionari. L’autocompiacimento dei mercati è reso evidente, al momento, dalla bassissima volatilità implicita (indice VIX) nonché dai valori molto rassicuranti di vari cosiddetti indicatori di stress finanziario (o indici delle condizioni monetarie).

 

Al di là dei fattori di breve termine, i precedenti storici suggeriscono che finché i rendimenti (obbligazionari) non risaliranno dai bassi livelli attuali (cosa peraltro tutt’altro che scontata), la crescita economica rimarrà stabilmente positiva, anche se bassa, e non ci sarà deflazione dei prezzi – le azioni potranno continuare a conseguire buone performance tramite l’aumento dei multipli di prezzo (P/E) anziché dover fare affidamento sulla crescita dei ricavi e degli utili. È questa la logica che sottende alla posizione di moderato sovrappeso azionario nei nostri portafogli modello globali. Nello specifico, considerati i problemi di valutazione precedentemente illustrati, si potrebbe forse esprimere tale sovraesposizione, con la possibilità addirittura di accentuarla, tramite un’allocazione settoriale conservativa, ovvero dando la preferenza ai titoli value rispetto ai growth e ai difensivi rispetto ai ciclici, o semplicemente riducendo gli investimenti nelle small cap e nelle azioni dei mercati emergenti. A più lungo termine se, come pensiamo, i tassi d’interesse tenderanno a salire, e purché il rialzo non avvenga troppo rapidamente, le azioni (essendo attività reali) dovrebbero continuare a sovraperformare rispetto alle obbligazioni, in particolare a quelle con cedole fisse in termini nominali e duration lunga.

Una sovraperformance di lungo termine delle azioni servirebbe anche a correggere quella che sembra essere una “anomalia” che ha caratterizzato sino ad oggi il nuovo millennio, ovvero che le obbligazioni sono state, in termini teorici e storici, più remunerative delle azioni.

 

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