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ATTUALITÀUsa policy redux

03.01.14 - 13:55
Giorgio Radaelli, Chief Global Strategist
Foto d'archivio (Keystone)
Usa policy redux
Giorgio Radaelli, Chief Global Strategist

La chiusura del 2013 sta riportando in evidenza la politica economica americana – monetaria e fiscale – con presumibili conseguenze per gli sviluppi economici e, quindi, l’andamento dei mercati. In breve, se le news non sono certo ottimali, ciononostante esse aiutano a ridurre l’incertezza che in tempi recenti ha handicappato, se non la crescita dei mercati (“cibati” dalla Fed), quella degli investimenti reali.

La novità fiscale è che il Congresso e la Casa Bianca sembrano, di fatto, aver approvato (ne avremo conferma in settimana) un “deal” che restituirebbe agli USA la “parvenza” di un budget per il settore pubblico, con orizzonte a due anni. Dal punto di vista politico, l’accordo “bipartisan” rimuove l’incognita di una continuing resolution (CR) da ricontrattare, e quella della scure recessiva che la regola fiscale del “sequestering” avrebbe riproposto per il 2013. Dal punto di vista dei numeri, il compromesso raggiunto riduce il “fiscal drag” 2014 di circa il 50%. Infatti la spesa pubblica totale è ora “fissata” a USD 1.01 trn, invece dei USD 0.967 trn che il “sequester” automatico avrebbe comportato. Il peso del “sequestering” è ridotto di circa il 50% per il 2014 e 25% nel 2015. La regola automatica di riduzione della spesa tornerebbe pienamente operativa nel 2016, seguendo quanto prescritto dal Budget Control Act del 2011.

Va detto che l’accordo non ha piena adesione fra i due partiti, soprattutto il Repubblicano. Forse anche per questo il deal non tocca il problema del “debt ceiling” che - rinnovato lo scorso ottobre - dovrebbe diventare di nuovo “costrittivo” entro fine febbraio. Quindi, non è improbabile che diatribe fiscali riemergano entro la fine dell’inverno. Questo perché le misure di contenimento del deficit approvate non soddisfano appieno la maggioranza dei “congressmen.”

In particolare, il contenimento della spesa viene assicurato tramite la mancata estensione di sussidi di disoccupazione ad altri 1.3 mln lavoratori (favorita dai democratici), mentre i tagli ai sussidi di “Obamacare” vengono ora imposti solo nel T1, il che lascia l’amaro in bocca ai repubblicani. Altre misure a contenimento del deficit sono l’aumento dei contributi pensionistici per vari gruppi di dipendenti pubblici (avversato dai democratici) e significativi aumenti nelle “fees” a sovvenzione della “sicurezza in volo” (avversata dai repubblicani).

Sul fronte monetario, la settimana entrante vede un meeting FOMC (Federal Open Market Committee)che sicuramente discuterà tempi e modi del famoso “tapering” – decelerazione negli acquisti di bond da parte della Fed, pratica d’implementazione del QE (Quantitative Easing) negli ultimi tempi. Come si sa, la maggior preoccupazione della Fed non è se fare il “tapering”, ma piuttosto come prevenire che tale passo venga letto dai mercati come una restrizione monetaria tale da causare aumenti nei tassi di interesse attesi. Ciò avrebbe infatti conseguenze negative (già viste tra primavera e estate) sui Teasuries, quindi aumenti del costo del credito a medio-lungo e contenimento della domanda interna (valutata ancora come “anemica” da parte dei policy maker).

Stando ai “rumours”, pare che un possibile, se non probabile piano della Fed sarebbe di appaiare al “tapering” un taglio del IOER (Interest Rate on Excess Reserves) in tandem con “reverse bond repos”. Il taglio del IOER avrebbe l’effetto di disincentivare la banche ad ammassare liquidità in presso la Fed (ad oggi, oltre USD 2,.5 trn) e, quindi, incentivarne l’uso del cash per favorire l’offerta (crescita?) di credito all’economia reale. Nel contempo, i reverse repos – vendite temporanee di bond alle banche commerciali – dovrebbe contenere la liquidità interbancaria e, quindi, prevenire un pericoloso calo dei tassi a breve di mercato, possibilmente in territorio negativo (tra i tassi a breve si include quello sui Fed funds, che è “market determined” a differenza dell’IOER, che invece è “amministrato”). Per capire il problema, va notato che l’eventualità di tassi a breve negativi implicherebbe rischi per gli enormi fondi monetari americani – rischi di “breaking the buck”, cioè scivolare sotto la soglia 100 per l’indice NAV. Ciò avrebbe effetti devastanti sulla liquidità a breve di mercato, incluso il flusso di finanziamento federale – dai fondi monetari all’offerta di Treasury bills.

Last but not least (troppo complicato per essere sviscerato in questa sede) settimana passata ha visto la proposta finale per l’implementazione della cosiddetta Volker Rule - regola lanciata a seguito del collasso Lehman per prevenire gli eccessi speculativi delle banche commerciali. In questa sede ci limitiamo a dire: il risultato è un testo che darà più lavoro a consulenti leali e lobbisti che certezze ai risparmiatori.

La situazione monetaria è, come si vede, piuttosto complicata, riflettendo i problemi di attuazione di una “exit strategy” che difficilmente potrà riportare il bilancio della Fed a situazione “normale” senza creare notevoli rischi (inflazionistici o deflazionistici) per l’economia reale.

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