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RACCONTI D'ESTATEClemente

18.07.12 - 16:00
di GiDom
Keystone
Clemente
di GiDom

Era molto avanti con l’età. Ogni giorno iniziava di buon mattino il cammino della miseria. Viveva d’elemosina. Il poveretto in quel triste periodo del dopoguerra, non riusciva a percepire nessuna pensione, questo per diversi disguidi assurdi. Viveva da solo in un alloggio ricavato nelle cantine di un antico convento. Dal vicolo in discesa sulla destra, si apriva l’ingresso al grande cortile di pietre sconnesse, dove alcune famiglie povere avevano trovato qualche sistemazione trasformando dei locali su due piani in appartamenti. Lui, al pianterreno, dentro un androne, vi erano quattro vecchie porte per altrettante famiglie. Sulla destra c’era la porta della sua stanza. Un pavimento sterrato, come quelli delle cantine, aveva la finestra bassa che dava sul cortile. In un angolo spuntava il tubo della stufa che, con il tempo aveva annerito il muro fin sotto le finestre del piano superiore.

All’interno di quell’umile dimora, c’era un letto con spalliere di ferro battuto, accostato all’angolo della parete di sinistra. Un vecchio mobiletto per comodino. Appena dentro sulla destra, la vecchia stufa a legna, con i cerchi concentrici di ghisa che, si toglievano secondo la grandezza delle pentole o padelle, e a lato, la piccola e stretta caldaia incorporata per avere l’acqua calda. Sul pavimento, pezzetti di legna accatastati per la stufa, piu’ in la, accanto al letto, il tavolo con due sedie spagliate, e una vecchia credenza un po’ sbilenca per il pavimento irregolare. Sopra al lavandino di pietra, il rubinetto dell’acqua, e a lato il treppiede con la bacinella e la brocca per lavarsi. Quella era la sua casa. Sulla parete accanto alla stufa, un telaio di assi con qualche pentola e la padella appese ai chiodi. Davanti al letto, accanto al comodino, un armadio con le ante intarsiate, ricordo forse di un passato meno misero.

Aveva un carattere aperto alla cortesia, alutava sempre le persone che incontrava, anche se questo gli costava fatica, poiché, doveva alzare la testa per guardare in viso chi aveva davanti, camminava molto curvo, quasi piegato con la schiena, tanto che i bordi della giacca sempre sbottonata, toccavano quasi terra. Il vecchio cappello a tesa larga un po’ sgualcito dagli anni. Appena fuori città verso porta romana, c’era il “Ferracocchio”, la bottega per costruire carri per buoi bighe e carretti vari, i proprietari, due anziani fratelli artigiani, il primo falegname, l’altro, piu’ vecchio, fabbro. Clemente, tutti i giorni alla stessa ora, arrivava li’ per riposare un po’ prima di proseguire il suo lento cammino verso il grande complesso della colonia “Delle Grazie” .

Si notava da lontano, l’avvicinarsi della sua figura, piegata in due dalla vecchiaia, con il suo bastone, passo dopo passo, arrivava li, i due artigiani, capivano che stava avvicinandosi, dalle feste che faceva il pastore tedesco, quando già lo vedeva da lontano. Entrava nel cortile, salutava, e si sedeva appena dentro su di un basso muretto. Posata la bisaccia si asciugava la fronte. Non aveva scarpe, ma un paio di grossolani sandali con i calzini di lana grezza, un cappello ormai sformato a larga tesa. grossi baffi spioventi, lo sguardo altero e buono di persona dignitosa seppur povera, nella sua estrema povertà, destava meraviglia il fatto che, era sempre ben rasato. Chissà quanta fatica doveva fare il poveretto, per cercare di mostrarsi dignitoso e presentabile, nonostante i suoi poveri indumenti logori, ma puliti. Arrivato nel grande cortile, dopo aver ripreso fiato, si alzava e andava a sedersi accanto all’officina del fabbro, il quale aveva messo accanto alla forgia, due vecchie sedie. Dopo un po’ arrivava anche un vecchio professore in pensione ormai da diversi anni. Proveniva da Roma, ma da anni viveva li in città.

Il fabbro, mentre lavorava all’incudine, tra le scintille della forgia, partecipava alle discussioni quotidiane. Offriva loro un bicchiere di buon vino, che teneva nel fiasco sempre a portata di mano. Era interessante ascoltare i loro discorsi. Il mendicante, il fabbro, il professore. Tre persone completamente diverse, ma, uniti dall’età e dalla saggezza del loro vissuto. Tutti con uguale dignità e la stessa semplicità. Il fabbro, grande appassionato e esperto di opera lirica, canticchiava sempre arie di questa e di quella opera. Il professore, discettava sulla filosofia di vita dei grandi pensatori del passato. Lui amava ricordare le sue gesta di gran letterato e di insegnante. Con le mani appoggiate al suo bastone, raccontava il suo passato di persona di cultura e le prestigiose amicizie, ormai lontane. Clemente ascoltava le sue chiacchiere con attenzione. Ascoltava in silenzio. Probabilmente, il suo passato di persona povera, non aveva grandi ricordi, se non quelli della povertà. Nella sua discreta semplicità, annuiva ogni tanto, o replicava le sue semplici ma sagge osservazioni. Cavava poi di tasca un pezzetto di pane che inzuppava nel vino. Il professore gli chiedeva, se fosse  d’accordo che una delle qualità migliori dell’uomo era  la cultura, la dignità e solidarietà.

Clemente allora rispondeva: "Si caro professore. Ma a parte la solidarietà, che, conosco anch’io, poiché c’è sempre qualcuno che, mi da un pezzo di pane, la dignità e la cultura in alcune situazioni della vita, non danno ne da mangiare ne da bere, come invece lo danno la furbizia e l’opportunismo. Non dico che non sia importante…Ma a volte sopraggiunge lo scoramento e il pessimismo. Non lo dico per me, che grazie a dio, ho dove alloggiare e qualche pezzo di pane per mangiare, ma tanta povera gente come me o peggio, vorrebbero tanto essere magari un po’ meno dignitosi, forse piu’ ignoranti, ma piu’ fortunati. Inoltre, caro professore, la maggior parte dei nostri politici e burocrati, non sanno nemmeno cosa sia la dignità, e spesso nemmeno la solidarietà, Per non parlare poi della cultura, che ciascuno si fa propria secondo le opportunità".

Il fabbro ascoltava i loro discorsi, e dopo aver arrotolato la sua sigaretta con il solito trinciato forte posava il martello, riempiva i bicchieri, per un po’ di relax, partecipando al dialogo.

Terminava Clemente: "Tutti quelli che dimenticano noi bisognosi di tutto, dovrebbero venire insieme a me, per qualche giorno a chiedere la carità per sopravvivere. Dopodichè, l’inviterei a pranzo nella mia lussuosa dimora. Pero’,dovrebbero portarsi dietro piatti posate  tovaglioli". Dicendo questo, dai suoi occhi splendeva non solo dignità, ma una certa signorilità, nonostante i rozzi sandali con i calzini di lana grezza. Dopo la pausa di riposo, ringraziava il fabbro Checco per il vino. Salutati i suoi amici si metteva il cappello, si alzava e con la sua bisaccia a tracolla, piegato in due, e appoggiandosi al suo bastone, si incamminava verso la grande colonia estiva per bambini bisognosi. Suonava al portone. La suora, che ormai lo conosceva da parecchio tempo, usciva con una mezza pagnotta di pane e un pezzetto di formaggio. Poi, lentamente, piegato a metà, riprendeva il cammino della miseria per altri portoni.

Io, da bambino, spesso giocavo in quel cortile con altri amichetti. Un giorno, Clemente mi chiama chiedendomi un favore. Dovevo andare per lui fino all’osteria situata nella piazzetta poco distante a prendere un po’ di vino. Mi dava una bottiglietta delle gazzose vuota, un paio di monete. All’osteria dicevo alla signora con la erre moscia e molto strabica che era per Clemente. La riempiva mentre con un occchio guardava la bottiglia, e con l’altro me, senza capire chi e cosa stesse guardando. Ogni volta, mi chiedeva se lo voleva, bianco o “Loscio”. Pagavo e ritornavo da Clemente. Siccome evidentemente non aveva soldi, voleva ricompensarmi con alcune noci che, io spesso rifiutavo dicendo che non era necessario. Nessuno sapeva da dove veniva, ne chi era stato in passato. Non aveva parenti. Aveva un gran rispetto per tutti. E per tutti aveva un sorriso o una parola gentile. Ogni tanto, portava i suoi poveri resti del pasto in fondo al vicolo dove due mici dormivano dentro un vecchio tubo di cemento. Appena lo vedevano arrivare con la sua gobba, andavano incontro con la coda in aria. Non aveva il gabinetto in casa. Doveva uscire, arrivare in fondo l’antrone che dava nel cortile del grande chiostro pieno di erbacce. Sulla destra una porticina con all’interno una turca sul pavimento. Erano quelli, tempi duri per molta gente. Non solo Clemente andava per elemosina, ma anche altri poveri diseredati.

Clemente, tutti i lunedì mattina, si recava dal negoziante nella piazza poco distante. Riceveva i resti della settimana, frutta un po’ passata, del pane raffermo, un po’ di verdura e qualche altra cosa che per lui era preziosa. Tutte le mattine, qualcuno lo vedeva avviarsi verso il gabinetto nel cortile del chiostro, con un secchiello d’acqua in mano e un asciugamano sulla spalla. Era il modo che aveva per lavarsi con l’acqua tiepida della stufa. In casa sopra al lavandino teneva appeso ad un chiodo uno specchio per radersi.

Un bel giorno, dopo qualche anno, la finestra bassa della sua stanza, rimaneva sempre chiusa. Di solito lui la finestra la teneva quasi sempre aperta, perché, “Cosi’ esce l’umidità”, affermava Clemente. Si seppe in seguito, che era stato ricoverato presso l’ospizio per vecchi accanto all’ospedale. Noi ragazzini, quando andavamo a passeggio giu’ per porta ternana, passando sotto le mura dell’ospedale, vedevamo i vecchi ospiti che con la testa tra i ferri della balaustra, guardavano la gente e le auto passare di sotto. Io guardavo su, per vedere se c’era anche Clemente ma non lo vedevo mai. Visse ancora per poco. Niente funerale. Niente avvisi di morte. I poveri diseredati non facevano notizia. Io lo venni a sapere molto tempo dopo. Benché ragazzetto ormai, ne rimasi molto dispiaciuto. Probabilmente, spirito libero quale era, non avrà sopportato quella vita da recluso. Ecco…In quel luogo, sicuramente, ripensando al suo amico professore, avrà ricordato che la dignità di una persona, scompare con la sua libertà.

Rimane prigioniera, nell’animo ferito, di chi non puo’ piu’ decidere del suo destino. La povertà estrema di quei tempi, paragonata all’abbondanza di tutto di oggi, fa riflettere. Noi bambini o poco piu’, in quel cortile spesso giocavamo con le biglie di terracotta, perché costavano meno delle altre, oppure con le figurine del calcio che tenevamo sempre nelle tasche per scambiarle tra di noi. Ogni tanto sbirciavamo all’interno della stanza di Clemente. Quando, noi bambini o poco piu’,avevamo sete, entravamo a chiedere se ci faceva bere dal rubinetto. Lui sempre sorridente ci faceva entrare. Aveva simpatia e pazienza con i bambini e ragazzini vivaci come noi. Caro Clemente. Quanta filosofia e signorilità nella sua estrema povertà.

In seguito, su a porta romana, nella bottega del ferracocchio, il professore con il trascorrere del tempo, arrivava ormai di rado a far compagnia al fabbro Checco. La sua sciatica cronica si acuiva sempre piu’. Il fabbro, facendo cantare il suo martello sull’incudine, continuava a canticchiare le arie della Traviata e del Rigoletto, nonostante fosse rimasto solo, gli faceva eco al canticchiare, il suono del martello sull’incudine. Le sedie un po’ spagliate, dove si sedevano sempre il professore e Clemente rimasero vuote, anche sul muretto appena dentro il cortile, non c’era piu’ la figura dignitosa di Clemente appoggiato al suo bastone, aspettando il solito bicchiere di vino. I colpi del martello sull’incudine, davano un suono spento dal ritmo sempre piu’ lento e melanconico del solito. Il vecchio buon Checco, canticchiava sempre le sue arie preferite delle opere a lui piu’ care, tra l’odore acre della forgia.

Il pastore tedesco, tutti i giorni, alla stessa ora, si affacciava dal cancello guardando giu’ verso porta romana, in attesa di scodinzolare avvistando Clemente, o il vecchio professore. Ma la sua coda rimaneva ormai immobile e lo sguardo triste. Oggi, quel cortile non c’è piu’, nemmeno la forgia, con il suo lamentoso rumore della ventola che girava, e le migliaia di scintille svolazzanti, cosi’, la falegnameria con la segheria poco distante, il vecchio trapano a mano per forare i cerchioni delle ruote dei carri. Oggi, quel posto magico, è stato occupato da due belle villette con annesso giardino. Il tempo ha cancellato tutto, anche i ricordi, con le bighe con le stanghe in aria in attesa di essere riparate, i carri per i buoi,  i carretti per gli asini, la buca in terra piena d’acqua, dove girando con le mani le nuove ruote, venivano messi nella giusta posizione a colpi di martello, e raffreddati poco alla volta i nuovi cerchioni.  

Mestieri scomparsi nel nulla. Insieme a Clemente, al saggio professore, al fabbro con la sua sigaretta sempre tra le labbra che, lui si arrotolava a mano. Alle scintille che, scaturivano dalla forgia. I colpi lamentosi e sempre uguali di martello su quell’incudine un po’ consumato dagli anni e dai colpi ricevuti, che ora non cantava piu’. Era il nobile e abile mestiere del ferracocchio.

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