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INTERVISTATeatro degli Orrori: "Basta alla canzonetta evasiva, edonistica e narcisistica"

26.04.12 - 07:37
Saranno venerdì sera all'Arena di Mendrisio
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Teatro degli Orrori: "Basta alla canzonetta evasiva, edonistica e narcisistica"
Saranno venerdì sera all'Arena di Mendrisio

LUGANO - Poetica, colta, contro tendenza, e contro le canzonette. Con il suo rock genuino e di denuncia il Teatro degli Orrori - questo venerdì all’Arena di Mendrisio -, è la band che più di altre, in pochi anni, è riuscita a ottenere un riscontro sia di critica che di pubblico. Anche quello giovanissimo. Cosa questa che, ci confessa  Pierpaolo Capovilla, cantante e leader del gruppo: "Mi fa sentire il peso della responsabilità”.
 
Teatro degli Orrori, d'altra parte per capire i testi ci vuole il libretto
"Direi di sì. La colpa è mia. Nei testi delle canzoni ci metto tutta la cultura che possiedo. D'altra parte sono anche piuttosto stanco della canzone italiana. È fin troppo semplice e impoverisce invece di arricchire chi l'ascolta. Io cerco piuttosto di indurre a porsi delle domande. Sono convinto che la musica non debba essere fuga dalla realtà, evasione, ma piuttosto un modo per concentrarsi ancor di più su quello che è lo stato delle cose ".
 
Quindi musica, ma con un significato più alto?
"La musica può avere un significato politico e contribuire al progresso della comunità in cui viviamo. Ci tengo affinché contribuisca alla modulazione dell'immaginario collettivo. D'altra parte tutta la musica è politica. Anche quella di Ramazzotti e della Pausini, soltanto che è di segno opposto rispetto al nostro. Noi siamo dei progressisti e possediamo questa cosa meravigliosa che si chiama spirito democratico".
 
È forse proprio per questa volontà di fungere da specchio della società che nei vostri testi si nota una certa dose di pessimismo...
"Naturalmente sono felice di essere a questo mondo, ma non posso fare a meno di vedere attorno a me tante ingiustizie e prevaricazioni. Il nostro, l'Italia, è un paese particolarmente sfortunato. 30anni di edonismo berlusconiano hanno sortito un effetto. La comunità italiana è antropologicamente cambiata. C'è un Super Io, come direbbe Jacques Lacan, che ci dice ogni giorno che dobbiamo godere. Ma il principio del piacere non è che una delle possibili cose che indirizzano la nostra vita. Io a questo punto del piacere me ne frego. Mi voglio sacrificare un po', voglio lasciare un segno positivo  nelle cose che faccio ".
 
Un atteggiamento questo che rischia di risultare snob e di relegarvi a una nicchia
"Non posso pretendere un pubblico universale. D'altra parte noi facciamo una musica che non è per tutti. Il nostro è un rock bello, genuino, autentico e radicale. Nonostante questo sono molto sorpreso dal successo del Teatro degli Orrori. Tra l'altro il pubblico si sta ampliando e stanno arrivando anche i giovanissimi. E sento un po' il peso della responsabilità (ride). In realtà sono felice. Perché questo vuol dire che qualcosa sta cambiando. Si vede che c'è voglia di impegno e il desiderio di poesia e di narrazione. Basta alla canzonetta evasiva, edonistica e narcisistica".
 
Di cosa c'è bisogno allora?
"Vogliamo qualcosa di più. E vogliamo anche soffrire un po', diciamoci la verità. Non possiamo accontentarci sempre della canzonetta d'amore. Anche perché l'amore è un rapporto sociale. E dietro quel rapporto, così bello e importante che chiamiamo amore, molto spesso si nascondono le peggiori prevaricazioni e ingiustizie. Basti pensare che il primo motivo di morte delle donne sotto i 30 anni in Italia è la violenza domestica. Se noi vogliamo narrare il Paese dobbiamo raccontare soprattutto ciò che non funziona, la parte orribile della vita. Occorre un approccio di tipo critico. Occorre individuare i limiti entro i quali vengono costrette le nostre esistenze. Una volta individuati questi limiti possiamo sperare di superarli altrimenti ne rimarremo prigionieri".
 
È proprio nell'ottica di questa cronistoria che nasce il vostro ultimo lavoro. “Il Mondo Nuovo”, .che in realtà avrebbe dovuto chiamarsi "Storia di un immigrato"
"È vero, ma poi abbiamo pensato che fosse una scelta un po' impudica quella di citare "Storia di un impiegato". De André è il più grande maestro della canzone popolare italiana. Evocarlo ci sembrava un po' troppo. Abbiamo optato per un titolo più allegorico, riferendoci al romanzo di Huxley che descrive un mondo veramente brutto, basato sulle classi, sulla genetica e sulla tecnologia. Un po' quello che sta avvenendo oggi".
 
Un album che parla di immigrazione. Un tema che riguarda l'italiano molto da vicino, soprattutto oggi.
"Il popolo italiano è un popolo di migranti. Da sempre. Noi ci siamo dimenticati della nostra storia, della nostra identità. Lo dimostra l'esistenza di partiti politici che fanno del razzismo, della xenofobia, la propria bandiera. Nel nostro disco noi abbiamo voluto dire una cosa precisa. Abbiamo voluto indagare il lato più intimo e delicato della vita dell'immigrato e l'abbiamo fatto per avvicinare la sua vita alla nostra. Perché siamo tutti uguali. Il nostro messaggio è questo: vogliamo una società multietnica e pluriculturale. Perché il multiculturalismo è il futuro del mondo globalizzato di domani. Noi vogliamo un mondo più bello, più giusto e più uguale ".
 
Nell'era dei social network come vi collocate?
"Oggi si usano i social network in maniera narcisistica invece che utilizzarli per fare informazione e cultura. È un peccato. Chi si chiude in casa e sta su Facebook tutto il giorno, non fa certo una gran cosa. Dobbiamo re-imparare a parlare tra di noi. Tra le persone vere, reali. Dobbiamo scendere in strada. Altrimenti il mondo non lo cambieremo mai. Non combattiamo le nostre solitudini con i social network”.

 

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